Il mondo dello spettacolo si divide da sempre in due categorie: quelli che stanno sul palco e quelli che stanno dietro. Quelli che salgono a fare lo show sono grandiosi e insicuri, eccentrici e fragili. Le persone che sono alle loro spalle, quelle che sventolano il pass AAA per sgattaiolare con facilità da un camerino all’altro e che ne hanno anticipatamente compreso le potenzialità commerciali, loro no. Non sono deboli per un cazzo.
Ed è di questi personaggi che inizieremo a parlare nella nostra nuova rubrica dedicata ai volti meno belli, ma più importanti della musica odierna. I produttori, i label manager, gli imprenditori che stanno costruendo la cultura pop contemporanea mentre noi abbiamo accesso solo alla facciata.
Partiamo da un tipo che negli ultimi tempi avrete letto spesso sulle riviste specializzate: Jimmy Iovine, quel nome che rivela senza troppe esitazioni le sue origini italiane (entrambi i genitori provengono dalla bella penisola e il padre era, letteralmente, uno scaricatore di porto) e che avrete sentito associato più che altro alla figura di Dr. Dre.
L’occasione per ripercorrere la vita di un uomo le cui intuizioni l’hanno reso una delle figure più influenti del panorama musicale mondiale, ce la dà la recente ascesa di The Weeknd. No, Iovine non è stato il suo ingegnere del suono e l’album non è neppure uscito per la Interscope Records, ma ha avuto un’illuminazione ancora più geniale nella sua banalità: fargli presentare il secondo singolo estratto da Beauty Beyond The Madness alla conferenza ufficiale del nuovo servizio di streaming Apple Music. L’exploit di Can’t Feel My Face non è, infatti, da attribuire ad un improvviso interesse del grande pubblico verso la musica da blog, è stata una mossa incredibilmente ben studiata per non deludere i fan longevi e underground del produttore canadese (lusingati da una scelta così fuori dagli schemi) e contemporaneamente raccogliere consensi su scala mondiale da parte di quegli ascoltatori abituati alle sonorità catchy di Max Martin, produttore del brano e dei recenti successi firmati Taylor Swift e Katy Perry. L’astuzia di far partecipare il canadese alla conferenza è la dimostrazione dell’occhio vispo di Iovine, capace di mettere assieme due mondi spesso lungi dal comunicare tra loro.
E da qui a parlare di Apple Music il passo è breve: Iovine è riuscito a vendere per 3 miliardi di dollari la compagnia che ha fondato insieme a Dr. Dre nel 2008, la Beats Electronics, produttrice delle omonime cuffie da stereo e del servizio di streaming musicale in quasi fallimento Beats Music (si pensi che alla fine del 2014, dopo quasi un anno dal suo lancio, Spotify contava 60 milioni di utenti attivi e Beats Music 250.000). Come ci è riuscito? Andando da Tim Cook e Eddy Cue, ovvero le due teste più in alto possibile della mela, armato di letterale ovvietà: “Guys, can we build a bigger and better ecosystem with the elegance and simplicity that only Apple can do? All the ways you love music, all in one place, and that place is in almost a billion hands all around the world already: one single app on your iPhone”.
Il resto è storia ancora da costruire, ancora da scrivere, ma fatto sta che i numeri di Apple Music sono in crescita, quelli dei competitor, in primis Tidal, non proprio. E si sa anche che quando Apple arriva a presidiare un nuovo scenario, quello stesso mercato ne ricava un boost fortissimo che giova pure ai competitor.
Ma il capitolo Apple non è che l’ultima mossa di una lunghissima serie di infilate strategiche da parte di Iovine. Una delle più recenti, il corso con cui lui e Dre formano i manager musicali del futuro all’Università del Sud della California. Si chiama USC Jimmy Iovine and Andre Young Academy for Arts, Technology and the Business of Innovation ed è frequentato solo da cervelloni che hanno come minimo già avviato una start up, programmano come dei matti 24/7 e lavorano su soluzioni ragionevoli a problemi del tipo “business plan per risollevare l’industria musicale nei prossimi 15 anni”. Questo perché la lungimiranza non è mai abbastanza e quando superi i 60 anni cominci a farti delle domande su quale eredità lascerai agli appassionati di musica di tutto il mondo, dopo avergli infilato cuffie da 300 dollari intorno al collo, avergli regalato la bellezza wasted di Patti Smith e reso accessibile il rap.
Torniamo a questo punto al capitolo numero 1 della sua storia: come Iovine si è avvicinato alla musica. Partendo dal basso, ma basso davvero. Puliva i pavimenti dello studio di registrazione dove andava John Lennon negli anni ’70. Lui di anni ne aveva 19 e dopo 24 mesi era diventato l’ingegnere del suono dietro Born To Run di Bruce Springsteen.
Da lì in poi la sua vita non si conta più in anni, ma in artisti dietro cui ha messo lo zampino: Tom Petty, Dire Straits, U2, Gwen Stefani.
All’inizio dei ’90 capisce che oltre alla produzione, anche il management può diventare un business prolificissimo e fonda la Interscope Records. Il primo artista ad essere messo sotto contratto è un rapper ispanico di cui non si ricorda quasi più nessuno. Nome d’arte: Gerardo; unica hit: Rico Suave. Per inciso ora fa il pastore per la sua comunità di ecuadoriani, ma nel ’99 porta in ufficio un amico, un altro cantante latino. Ovvero quel fenomeno commerciale da 100 milioni di dischi chiamato Enrique Iglesias. Ancora una volta, Iovine guarda la luna e non il dito.
La passione per il Sudamerica dura poco perché sta per bussare alla sua porta il più grande fenomeno musicale americano degli anni ’90: il gangsta rap, che affonda le sue radici nella decade precedente, ma che trova terreno fertile per esplodere a livello globale in questo eccitante periodo. Iovine non se ne va in giro a cercare nuove leve da spremere e non punta neanche a realtà ormai consolidate come i Boogie Down Productions, aspetta l’occasione propizia per infilarsi a gamba tesa nella scena già avviata. Quella occasione si può chiamare Dr. Dre, che ha appena lasciato gli N.W.A. e si prepara a confezionare uno degli album più influenti dell’intera storia dell’hip hop: siamo nel ’92 e, naturalmente, l’album si intitola The Chronic, distribuito dalla neonata Death Row Records, partecipata al 50% dalla Interscope. The Chronic non è solo la pietra miliare che oggi tutti veneriamo, è anche il trampolino di lancio degli artisti più fortunati dell’etichetta di Iovine da lì a qualche mese: Snopp Dogg, che compare in 13 tracce su 16, crea un subgenere del gangsta rap chiamato G-funk, pubblica il debut album Doggystyle e vende 8 milioni di copie.
(L’opinione del popolo di Youtube al riguardo)
Tra un impegno e l’altro, Iovine e la sua Interscope mettono sotto contratto un ragazzo dal passato disagiato originario di East Harlem che diventerà presto una leggenda. Uno che ha omaggiato Apocalypse Now con il suo primo album e il cui quarto disco si intitola come un recente successo di Britney Spears. Facile dirlo, Tupac Shakur.
Lo stesso anno in cui 2Pac ci lascia per lidi migliori, un giovane rapper bianco, di Detroit tenta di scalare le classifiche con un album debole – Infinite – e a malapena spinto dalla sua etichetta di allora, la Web Entertainment. Ci vorrà il secondo EP perché Dr. Dre e Iovine si accorgano di lui durante le Rap Olympics del ’97, quando il suo demo finisce nelle loro mani sancendo l’entrata definitiva di Eminem nell’olimpo del white rap e creando un personaggio tra il comico e il violento. Per la cronaca, il suo The Slim Shady LP, prima pubblicazione a firma Interscope, ha vinto addirittura 4 dischi di platino.
Seguono i contratti per gente come 50 Cent, Busta Rhymes, Lady Gaga e arriva anche l’impegno nella produzione cinematografica: Iovine comprende subito le potenzialità emozionali di una storia come quella di Eminem e la trasforma nel film campione d’incassi che corrisponde al titolo di 8 mile (per la precisione l’incasso fu di quasi 243 milioni di dollari). Seguono Get Rich or Die Tryn’, dichiarazione di vita più che di intenti diventata slogan per intere generazioni di ragazzini che sognano di uscire dal ghetto placcati d’oro, e More Than A Game. Quest’ultima pellicola tratta di tutto meno che di musica: è un documentario sulle tribolazioni post adolescenziali di LeBron James e dei suoi compagni di team che passano dal giocare per la squadra del liceo in Ohio al parquet dell’NBA. Da lì a metterci la giusta colonna sonora cantata da Mary J.Blige è un attimo e, come sempre, l’operazione porta le impronte digitali di Jimmy.
Non stiamo a raccontarvi infine com’è nata Beats Music perché l’avrete letto dovunque (Dr. Dre voleva realizzare una linea di sneakers, mentre Iovine stava già creando un nuovo bisogno per i consumatori: quello di cuffie che garantissero una qualità audio migliore dei semplici auricolari forniti dall’iPod). Possiamo però raccontare qual è stato il concetto portante dietro un curriculum di questo calibro: non adagiatevi sugli allori, non temiate il rischio di non farcela, non lasciatevi battere dalla paura. La vita stessa è basata sulla tensione tra paura e volontà di vincerla. Uno dei lasciti più belli di Mr. Iovine non ha né il design di un bel paio di cuffie dai bassi potenti né si valuta in bitrate. È compendiata tutta in una consapevolezza devastante, e vale sia per chi ha avuto una vita di successi inenarrabili come la sua, sia per chi, come suo padre, scaricava le navi al porto di New York: “Everything we know could possibly be wrong already”.