Weirdo classe ’87, dal capello sbarazzino e dal pronunciato diastema: questo è un primo identikit di Mica Levi, polistrumentista di formazione classica che ha identificato nel 2014 l’anno della propria consacrazione artistica. Nominata ai BAFTA per la sua sorprendente, quanto inquietante, colonna sonora per Under The Skin – adattamento cinematografico firmato da Jonathan Glazer dell’omonimo romanzo sci-fi di Michel Faber – la Levi è riuscita a catalizzare su se stessa grandi attenzioni. Una musica insinuante che, con andamento sincronico, segue i movimenti della protagonista – un’aliena antropomorfa dalle sembianze di Scarlett Johansson – prendendo talvolta il posto delle parole in una pellicola dalla sceneggiatura scarna, quasi ridotta all’osso. Una storia che viene quasi eclissata, dando così spazio ad un trip visionario, ereditato dalla lirica del videoclip del Glazer epoca MTV (suoi sono videoclip cult come The Universal e Karma Police). Archi di Ligeti-iana memoria, manomessi e frazionati dalla giovane artista, compongono così un esordio da film score maker eccezionale, che precede la release – sotto il ritrovato pseudonimo di Micachu – di un eclettico album-mixtape strumentale, Feeling Romantic Feeling Tropical Feeling Ill, con il quale la Levi è andata a sancire un anno imperniato sulla decostruzione del suo passato indie-pop.
Tempo preterito che tuttavia è riemerso quest’anno con l’annuncio del ritorno, dopo 3 anni di iato, di quel contenitore fatto di ethos DIY, ritmiche meticce, rumori assortiti, bassa fedeltà e camicie colorate 70s, che prende il nome di Micachu & The Shapes. Una speciale alchimia che in molti hanno compendiato in “experimental pop”, o più semplicemente in “art pop”. Un ritorno inaspettato che riporta la Levi, insieme a Raisa Khan (alle tastiere) e Marc Pell (alla batteria), ad indagare idiosincratici lidi pop, dopo Jewellery, debutto roboante – con tanto di sample di aspirapolvere – ma allo stesso tempo colorato, e Never, sophomore dal taglio più garage-punk; due lavori intervallati dalla straniante collaborazione, dal retrogusto post-punk, con la London Sinfonietta, Chopped & Screwed. Inaspettato anche perché frutto di un caso del tutto incidentale: la genesi di Good Sad è da ricondurre ad una jam-session di un’ora registrata dal batterista Pell, con il suo field-recorder Edirol, all’insaputa dei suoi compagni. Un iter compositivo che ha così influenzato il risultato finale di questo terzo capitolo discografico per Rough Trade, arrangiato in modo da restituire quell’immediatezza ed impulsività da cui è sorto. Good Sad si erge da strutture più scheletriche – e ne è paradigma il minimalismo e il soul svuotato di Oh Baby – ed è caratterizzato da atmosfere più rilassate rispetto ai caotici predecessori. Eppure persistono alcuni leitmotiv del passato, come la coltre lo-fi e la voce gender-free della Levi, specchio della propria androginia che, passando da un timbro più nevrastenico – che sfocia anche nello screamo in Unity – ad uno più dimesso e quasi biascicato, esprime un’incredibile ambiguità espressiva. Non manca poi il particolare umorismo del trio, con il quale condiscono le tematiche sulle quali si impernia il disco, come le impercettibili contraddizioni di un mondo accelerato, alluse peraltro nell’antinomico titolo, e le ansie da esse derivanti in un trio di ventenni alla soglia della maturità. (“I’m stressed, I’m stressed! / Now, I’m relaxing”, da Relaxing).
Un lavoro quindi più morigerato, ma non scevro di nuances: un pinball elettronico (Sad) inaugura un trip fatto di rapimenti alieni (Dreaming), lisergiche – per non dire strafatte – serate in spiaggia (Sea Air), allucinazioni bucoliche (Hazes) e apatici flussi di coscienza sulla cura del proprio corpo (Thinking It), mentre i fraseggi sghembi di Suffering suggellano il tutto. Una trasversalità che non sorprende se si è conoscenza dell’universo bastardo di Mica Levi, che nel nom de plume di Micachu ha racchiuso gran parte delle spinte provenienti dalla suburbia londinese (lei è di Surrey). In passato molto vicina ad ambienti grime ed hip-hop, come stretta collaboratrice di MCs del calibro di Man Like Me e Ghostpoet, e producer/DJ – veste nella quale ha realizzato uno dei nostri set Boiler Room preferiti – successivamente la sua carriera si è prevalentemente focalizzata su una certa tensione tra pop e sperimentalismo. Una peculiarità in particolare evidenza nelle sue ultime tappe artistiche: prima violentatrice di archi, ora narratrice, con la riconquistata sensibilità pop, di futuri rimandati, di scelte / non scelte; dell’aleatorietà dei nostri tempi.