Non c’è stata una persona a cui ho voluto bene alla quale non abbia letteralmente fatto una testa tanta parlando di Victoria Legrand e dei Beach House. Ricordo come fosse adesso la prima notte in cui ho sentito la loro musica: è stato come rifare l’amore la prima volta, quella in cui si trema un po’ perché invasi da qualcosa di trascendente. Ho sentito, ho provato, ne ero sicura, percepivo la vita, pulsante, sotto la pelle.
Da quel momento ho portato il duo di Baltimora nel cuore, una venerazione che mi ha spinto a vederli dal vivo un numero non indifferente di volte nel giro di pochi anni, una delle quali abbracciata alla persona di cui mi stavo perdutamente innamorando. Perché i Beach House sono un gruppo da amare in quanto il gruppo dell’amore e della passione, del dolore ma anche delle ninna nanne cremose, del desiderio crescente e del calore, del sogno e del cuscino che accoglie e attutisce i singhiozzi. Sfido qualsiasi amante della loro musica a non avere consumato litri di lacrime su Take Care pensando alla persona desiderata, amata, perduta. A tutti gli effetti Bloom è stato uno dei dischi che ha fatto da sfondo al mio amore più grande, così grande che è impossibile dissociarlo (sarebbe troppo doloroso) da quel volto e da molte immagini che risiedono nel cuore come una pietra.
Più di cinque anni fa incontrai di persona Victoria (voce, tastiera e liriche del duo) a Milano in occasione di un loro concerto in apertura ai Midlake. Il pretesto era un’intervista che feci per la radio universitaria ma che – credo – non mandammo mai in onda. Tenni il file per due anni nell’hard-disk fino a che decisi di sbobinarlo e metterlo online qui. L’apice di quella deliziosa intervista fu la mia richiesta di cantare insieme a Vic un pezzo di una loro canzone. Scelsi Used To Be. Qui l’audio che immortala il momento clou.
Cinque anni dopo ho avuto l’opportunità di chiacchierare ancora con Vic (questa volta ahimè solo telefonicamente) riguardo il nuovo album Depression Cherry. In apertura le ho ricordato quel piccolo duetto – descrivendolo come uno dei momenti più preziosi della mia vita. Grazie di parlare ancora con me, mi ha risposto con voce calda e serena.
Questo l’inizio della nostra seconda conversazione – andata pressapoco così.
Recentemente ho scritto una recensione/saggio su di voi, l’ho tradotto in inglese e l’ho mandato al vostro manager. Non so se l’avete letto.
Sì, l’ho letto, l’ho letto! E’ davvero interessante vedere come la nostra musica stimoli le persone a scrivere e ad interpretarla come se fosse arte – ed è vero, perché la musica è arte. Pensiamo ai nostri dischi come qualcosa da donare alle persone e per me è sorprendente notare come ognuno, in cambio, ci doni la propria esperienza. Penso che quello che hai scritto sia bellissimo. Anzi, sin troppo lusinghiero. Non posso darti un voto, non sono una maestra, anzi penso che siamo un po’ tutti studenti nella vita.
Wow, grazie. Parliamo un po’ di Depression Cherry. Quando l’ho ascoltato per la prima volta, la mente è subito volata al Giappone. Forse il titolo mi ha dato questa suggestione, o forse l’atmosfera di tutto l’album. E non sono mai andata in Giappone! E’ strano, lo so…
No, non è strano, è una visione che hai avuto. Quando lavoriamo sulla musica, abbiamo visioni ed è fondamentale lavorare su quelle immagini. Forse è qualcosa che ha a che fare con l’inconscio, e quell’inconscio, anche se non immediato, è strettamente correlato a noi.
Proprio per questo motivo mettiamo tutto di noi nella nostra musica: impulsi, sensazioni, corpi. Ed energia. Per me ha sempre funzionato così e trovo sia pazzesco riuscire a canalizzare quelle immagini in una musica che riesce a produrne altre in modo assolutamente libero. Tu hai, per esempio, visto il Giappone. In musica non c’è nessuna regola o legge; puoi vederla da così tante angolazioni: attraverso, da dentro, da fuori. Non ci sono muri, è una bellissima forma di espressione dell’inconscio.
Penso avvenga fondamentalmente per associazioni di idee…
Sì, sicuramente. L’inconscio è così potente: ti fa figurare qualcosa senza rivelarti nemmeno cosa è. E’ un bellissimo processo mistico di nascondimento e svelamento. Le canzoni emergono, tu non sai cosa siano e da dove vengano finché poi non lo scopri ed è come se le personificassi una seconda volta, questa volta in modo inedito poiché riesci a scorgere nuovi significati. E’ strano, io le chiamo “conversazioni con l’inconscio”.
Bellissimo. Hai appena menzionato l’aggettivo “mistico”. Durante le interviste descrivete spesso il processo creativo della vostra musica con molta emozione. E’ come se parlaste di qualcosa di sovrannaturale, come un’epifania. Questo senso di meraviglia e di bellezza continua a sorprendervi anche dopo 10 anni dalle prime canzoni?
Sì (ride, ndr). Credo nell’infinita meraviglia e l’infinita bellezza nel mondo, così come nell’ispirazione senza fine. Che non vuol dire che sia sempre possibile creare cose – ho dei periodi di nulla profondo, le parole non mi vengono, non suono nemmeno il piano. Mi sento davvero una persona normale. Ma lo so, è così: non necessariamente accadono sempre delle cose splendide che poi portano alla creazione. Ci sono fallimenti, bisogna accettarli come parte di un ciclo naturale. Lo so, ci sono persone che hanno una vita molto infelice, ma anche persone in grado di amare e di inspirare altre persone. Sono fermamente convinta che ci sia così tanta bellezza nel mondo – così tanta che anche nelle situazioni più tristi può emergere qualcosa di splendido.
Riguardo il processo creativo. L’incontro con Alex è stato qualcosa che mi ha cambiato la vita. Ho davvero avuto la percezione che quello che stavo creando fosse estremamente più grande e importante rispetto a quello che facevo da sola: credo infatti che le persone si fortifichino reciprocamente. E’ bellissimo sentire come il tuo semplice canticchiare a bocca chiusa possa diventare qualcosa d’altro. Mi viene da pensare ai bambini che riescono a cogliere qualcosa che gli altri non riescono a cogliere.
Una canzone davvero potente di Depression Cherry è sicuramente PPP. Il titolo ha un significato? Come siete arrivati all’inserimento dello spoken word?
Penso che questo titolo sia proprio frutto dell’inconscio. PPP può significare tutto e niente, può essere il nome di una persona. Noi non spieghiamo mai i testi: era solo un titolo che ci piaceva e poteva funzionare. Ognuno può trovare un significato se vuole. La parte parlata è nata perché andava a braccetto con la musica. Non è un gioco di riferimenti o influenze: ci siamo resi conto che una parte parlata elevava in modo naturale il senso della musica. E’ interessante perché tutti quelli che mi hanno chiesto di questa parte parlata vedevano qualcosa di diverso: dei riferimenti a film, in generale. Non c’è nulla di intellettuale, è capitato e basta.
Come un flusso di coscienza?
Semplicemente era la volontà della musica. Non lo definirei proprio flusso di coscienza: è un particolare fissato, scelto, deciso.
Una domanda più tecnica. Per questo tour ho notato alcuni cambiamenti: dov’è la tastiera bianca, la Yamaha?
La Yamaha bianca è dentro la tastiera che ci portiamo in tour, in ottima compagnia con tutti gli altri suoni delle nostre tastiere e organi – ne abbiamo veramente troppi. C’è ancora, non preoccuparti. C’è anche nell’album.
Sarò a Parigi al Pitchfork Festival. Poiché avete dato la possibilità ai vostri fan di suggerire le canzoni che vorrebbero sentire live, io dico la mia: per favore, suonate Astronaut.
Astronaut, hai detto? Ok, è proprio col suono di quella Yamaha! Grazie di essere così dolce, ci vediamo al Pitchfork, allora!
Hey, vi aspettiamo in Italia! Grazie Vic, ti mando tanti baci.
Grazie a te, Valentina – che bellissimo nome! Ciao-ciao (in italiano, ndr).