[column size=”2/3″ center=”yes”]Milano il 3 giugno era già incredibilmente calda. Ricordo d’aver cercato di fare tutto con estrema lentezza, provando a calibrare ogni movimento in funzione del sudore che avrebbe generato. È una cosa che mi capita spesso di fare, ma che altrettanto spesso non funziona.
Era la mia prima estate a Milano, e nonostante sia nato e cresciuto al sud, a quel tipo di temperatura non ci si abitua mai.
Claustrofobicamente seduto nella metro verde, ho provato ad immaginarmi lo stato psicofisico dell’artista che stavo andando a intervistare, bloccato in una interminabile promo day italiana, in una giornata caldissima, in una città caldissima. Ian Williams però ha trascorso gran parte della sua infanzia (e adolescenza) in Malawi, e quindi magari fa molti meno capricci di me. Da manuale Wikipedia “Ian Williams è un musicista, compositore e cantante statunitense, noto per la sua militanza nei Don Caballero prima e nei Battles poi”. Dopo aver ritrovato l’aria aperta, preso una scorciatoia e attraversato un piccolo viale con terrazze a livello invidiabili ma piene di zanzare entro in un ufficio, pronto per intervistare un membro dei Battles in occasione dell’uscita del loro nuovo disco, il prossimo settembre.
Servono poche parole per introdurre i Battles, anzi forse ne basterebbe solo una, Atlas, eppure prima di arrivare all’appuntamento studio approfonditamente il web alla ricerca di qualche aneddoto, storia, numero che maniacalmente mi appunto. Ho ascoltato il disco (ancora senza titolo – o quasi – né tracce separate) trovandolo profondamente spontaneo. Un album liberatorio, suonato in una maniera che non m’azzarderei a definire. In alcun modo. È un disco dei Battles e suona un po’ come deve suonare. È un disco che unisce mille influenze diverse, che ha implicita una voglia di espressività notevole. Anche per questo decido che non gli chiederò poi troppo del nuovo lavoro, immagino dev’essere stanco di ripetere le stesse nozioni tutto il giorno, ad intervalli di trenta minuti. Quelle potrete leggerle da qualche altra parte, magari.
Dalle interviste video di cui ho fatto scorta i giorni precedenti Ian sembra la più rock-star del gruppo. Un tipo particolare, scazzato ma educato, e con l’aria dell’artista strafottente. Un cliché. Ma anche i cliché, a volte funzionano.
Quando ci incontriamo, Ian indossa una leggera camicia bianca, e un bellissimo pantalone di cui mi prometto di chiedere la provenienza. Salvo poi dimenticarmene, come pure del taccuino con gli appunti.
Sediamo, in compagnia di una bottiglia d’acqua, all’ombra di un minuscolo balconcino, e dopo il rumore del primo tram, comincio a parlargli un buon inglese con il mio spregevole accento italiano.[/column]
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[column size=”3/5″]I Battles sono un arcipelago di isole collegate da una combinazione unica di arte, sperimentazione e tecnologia. Una band che trattiene loop computerizzati in mente, lascia segni di sudore sulle macchine il cui battito cardiaco è quasi brutalmente umano.
Dave Konopka, Ian Williams e John Stanier questa volta hanno rimescolato le carte confrontando le loro idee su ciò che sono i Battles e qui, nel loro terzo album, si sono dati una risposta. La Di Da Di è un monolite di ripetizione in crescita. C’è un battito organico techno di loop infiniti che si rifiutano di essere coerenti. Il gene ritmico dei Battles è sempre qui: frontale, amplificato e implacabile.
I Battles presenteranno il nuovo disco all’interno della 15a edizione del Club To Club Festival. [/column]
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[column size=”2/3″ center=”yes”]Prima del disco, prima dei Battles, c’è Ian. E Ian ha vissuto in Malawi, nonostante sia nato in Pennsylvania. Cos’hai portato con te (dal punto di vista musicale) da quell’esperienza?
Sai, è molto difficile da dire. Non voglio mentire, o esagerare, dicendoti che sì, la mia avventura africana ha avuto un grande impatto sulla mia musica. Ho passato a New York gli ultimi 15 anni della mia vita, e in generale continuo ad essere molto influenzato da quello che ascolto, che so, su Spotify. Vengo influenzato da tante cose, ogni giorno. In Malawi ho ascoltato tanta musica, musica che trovavo per la strada o semplicemente che era nell’aria. Non sono neanche troppo sicuro d’averla capita a pieno. Ma credo che mi abbia aiutato ad apprezzare, quando sono cresciuto, il gusto dell’”esotico”. Anche oggi, cerco sempre qualcosa che possa suonare “strano” o non comune. Userei questa sensazione per rispondere alla tua domanda.
Hai fatto parte di altre band prima dei Battles. Qual è la più grande differenza tra quelle esperienze e quella che stai vivendo adesso?
Ci sono tantissime differenze, davvero. L’elemento batteria ad esempio, le band in cui ho suonato avevano batteristi diversi, e batteristi diversi hanno anche diversi framework di lavoro. John (Stainer) è una persona e un artista molto preciso e meticoloso, tutto deve essere settato alla perfezione, Kevin (Shea, degli Storm & Stress) era molto più orientato verso un’interpretazione “libera” degli strumenti. Ad ogni modo credo che la più grande differenza sia rappresentata dall’assetto tecnologico con cui avevo e ho a che fare. Come Battles lavoriamo con tutti questi loop e ripetizioni, siamo sì una band rock, ma abbiamo tantissimi elementi elettronici al nostro interno. Abbiamo reso gli elementi elettronici quasi dei nuovi membri della band, dobbiamo quindi rispettarli, perché loro hanno la loro “personalità” e il loro modo di influenzare il nostro processo produttivo.[/column]
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Ho la sensazione che Ian non tiri in ballo l’elettronica per caso. E infatti quando torno a casa, e ricontrollo quegli appunti, mi accorgo che l’ha fatto di proposito. Il comunicato stampa del nuovo album infatti recita «as any consciously relevant social-interest story will inform you post-haste, we are living in an increasingly Networked Age. As a society we are connected in more ways than ever before, technologically linked with one another through an ever-growing web of invisible electronic pathways, which as they evolve begin to approach the kind of cognition we used to associate with the idea of ESP or ‘psychic’ behavior. We’re able to tell where each other went on vacation or what each other had for lunch without ever having to utter a word to one another, or even be in the same room, let alone time zone».
L’intero disco parla in qualche modo della nuova era, una distopia musicale, dove i pezzi (le tracce) sembrano essere tornare al loro posti da soli, senza che la tracklist debba per forza allinearli. Internet, insomma.
Rileggendo quegli appunti, mi scappa un sorriso pensando al modo in cui quell’intervista continua.
[column size=”2/3″ center=”yes”]Questo mi porta alla prossima domanda: qual è stato il più grande cambiamento che hai dovuto affrontare nella tua vita musicale?
Gli esseri umani hanno ascoltato musica da prima della civilizzazione, quindi in un certo senso noi abbiamo solo continuato una tradizione. Credo però che molto sia cambiato.
Quando ero ragazzo ad esempio, la cosa più figa che potessi fare era creare una band con i tuoi amici. Ma adesso la cosa più figa che tu possa fare è creare una start-up, un sito internet o cose del genere, app. È come se avere una band oggi sia una roba da sfigati quasi, da strambi. È anacronistico. Ma più sento di star facendo un qualcosa “contro”, una cosa per certi versi socialmente sbagliata, più mi sento meglio.
E nella musica stessa, c’è una sorta di cambiamento istituzionale del 21esimo secolo. È come se le uniche cose nuove adesso nella musica venissero fuori dai producer hip hop o di musica elettronica, robe che trovo assolutamente noiose. Eppure sono sicuro che c’è qualcosa di fresco, nuovo, ancora. Ci sono talmente cose nuove da fare con la tecnologia…
Ma credi che la musica abbia perso un po’ del suo potere comunicativo?
Hum…no, non credo.
Intendo dal punto di vista politico o sociologico, se così possiamo definirlo.
Non lo so, credo che la musica sia diventata più facile piuttosto. Come dicevo, i membri delle band non sono più “quelli fighi”, quelli hard-punk-rock. Collegato a questo fenomeno c’è anche la perdita di attrazione verso le città ad esempio. Non hai più bisogno di vivere in città vicino quel fighissimo negozio di dischi per scoprire le novità. E in un certo senso questa è una buona cosa, perché non è più un privilegio avere accesso alla musica ma nello stesso tempo ciò la rende meno speciale e più confusa.
Le barriere tra una pop band e una band come i Battles si stanno sgretolando sempre più. Ai festival suonano tutti la stessa musica oramai, tutto quello che si sente in giro è una sorta di mash-up, e ti confonde. O forse, è semplicemente diverso, quindi strano.
In giro per il web si rincorre la definizione di Battles come “NEW YORK BAND”, come se il solo fatto di venire da New York debba per forza definire un modo di fare musica. Hai mai riscontrato questo tipo di stereotipizzazione?
Capisco ciò che intendi, e probabilmente posso comprendere perché lo fanno. È divertente notare come, quando noi abbiamo cominciato, NY non era per niente cool, e soprattutto non c’erano band cool a NY negli anni ‘90. Certo, nella storia del punk rock c’erano delle super band negli anni ‘70, forse negli ‘80. Ma nei ‘90 a NY c’era solo l’hip hop, mentre i bambini bianchi annoiati si divertivano con l’indie rock. È strano, e credo che c’entrino in qualche modo anche l’11/9 e i The Strokes. Dopo l’attentato tutti hanno cominciato a fare molta attenzione a NY, e c’era questa band molto catchy in giro, gli Strokes, che hanno comunicato quanto New York fosse in verità figa.
Ma dire “NEW YORK BAND” non ha poi tutto questo senso. NY è una città talmente grande dove succedono talmente tante cose. Non so nemmeno più cosa sia una “NEW YORK BAND” adesso.
Cosa vi ha spinto a formare la band, dopo esser già stati parte di grossi progetti?
Dopo la fine dei Don Cabalero, che ho lasciato nel 2000, ero in pratica a corto di soldi, e quindi ho pensato: cosa posso fare? Ero a Chicago e ho deciso di trasferirmi a New York, e mi sono detto «comincerò a fare film». Ho provato a mettere tutto insieme, ma ogni volta che incontravo qualcuno mi diceva «ehy, tu sei Don Cab, vuoi suonare al mio show?». Non che l’idea mi facesse schifo, ma trovavo assurdo che la gente mi chiedesse di fare solo e unicamente quello che avevo fatto in precedenza. Hai fatto il musicista? Bene, farai per sempre il musicista. Oppure nel tuo caso: hai scritto un articolo? Adesso ne devi scrivere un altro, perché questo è quello che fai.
Quindi, in definitiva, credo di aver ricominciato a far musica per aver poi la possibilità di fare film. Ma poi, nel 2004, dopo il nostro primo tour negli USA mi accorsi che sì, essere in una band, fare quello che faccio mi piaceva ancora, di nuovo.
Quindi sei un grande appassionato di cinema! Hai mai pensato di scrivere qualcosa per il cinema? Intendo come colonna sonora?
Si, lo farò senz’altro. Ho già fatto qualcosina, ma in futuro vorrò sicuramente coltivare questa passione.
C’è una canzone che ha cambiato la storia dei Battles? Mi aspetto una sola risposta…
(ride) Si, certamente. La risposta facile è Atlas, che è stata una cosa totalmente inaspettata. Non volevamo fare la hit, né tantomeno canzone catchy. È stato davvero strano quando la gente ha cominciato a venire ai nostri show, gente che non avrei mai pensato di poter vedere sotto il mio palco e…[/column]
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[column size=”2/3″ center=”yes”]E chiedere di Atlas.
Esatto. È successo e noi eravamo sia contenti che straniti. Poi abbiamo fatto un altro album, il secondo, e una marea di gente era li pronta a chiedere ancora la nuova Atlas. E forse è stato questo il motivo per cui abbiamo fatto Ice Cream, perché stavamo cercando a tutti i costi una nuova hit. Non so se abbia funzionato, ma di certo dopo abbiamo cominciato a fregarcene degli altri e fare semplicemente la musica che volevamo fare.
Che è un po’ il mood del nuovo disco. L’ho trovato più “arrabbiato” rispetto ai precedenti. È una definizione che ti piace?
Fammici pensare… ma si! Volevamo solo fare questo tipo di album e volevamo farlo proprio adesso. Proprio in virtù di quello che ti dicevo poco fa. E anche perché credo ci sia poca musica come quella in giro, e sentivamo il desiderio di fare quel disco.
Come avete, storicamente, programmato le vostre uscite?
Quando abbiamo cominciato, nessuno sapeva chi fossimo. C’erano però grandi attese e io non volevo essere giudicato sulla base di un solo album, o che la gente potesse dire «questo è buono oppure non lo è». Volevo che avessimo tempo per svilupparci come band, di acquisire un’identità e un suono, e quindi ho pensato di dividere un potenziale album in due EP, dalla stessa sessione. Avevamo 3 label diverse che lo rilasciavano allo stesso tempo. Quindi nessuno sapeva cosa cazzo stesse succedendo (ride), cera solo Battles-music in giro. Nessuno poteva farci troppa attenzione, o giudicarlo troppo, era solo una roba finita nell’universo musicale. E ha funzionato, perché ci ha dato tempo di crescere e di fare l’album che volevamo fare.[/column]
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Rileggendo quest’intervista, questa chiacchierata, a settembre e con il nuovo disco già fuori, mi sono reso conto di aver bisogno di inserire una nota prima della prossima domanda. Nello streaming che l’etichetta – la Warp – ci aveva messo a disposizione, c’era un’unica lunga traccia, senza titoli. E questa lunga traccia si chiamava I remember when I was 26.
[column size=”2/3″ center=”yes”]Ian, ti ricordi di quando avevi 26 anni? Stavi lavorando al secondo album dei Don Cab, giusto?
(ride) Al terzo, credo. Lavoravamo al terzo disco. Ma quel titolo è uno scherzo, non è il vero titolo. Il vero è La Di Da Di.[/column]
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Ian dopo questa e altre tre interviste partirà per Parigi, dove si esibirà in uno show. È già abbastanza provato, così dall’interno dell’ufficio ci fanno segno di sbrigarci nei prossimi cinque minuti. Passa di nuovo il tram. Di nuovo rumore. E poi le ultime due domande, quelle più “romantiche”.
[column size=”2/3″ center=”yes”]Come ti fa sentire essere un Battles, cioè un membro di una rock band, nel 2015?
È ok, mi sento fortunato anche se rischio di impazzire a volte. Ma sono molto molto felice però di poter suonare e che a qualcuno importi davvero.
E la vostra relazione con la Warp, com’è?
Molto buona. La Warp è una gran label, tengono molto a noi, fanno di tutto per assicurarsi che abbiamo successo. Forse in un’altra label non avremmo questo equilibro.
Di che equilibrio parli? La Warp è una label molto “complessa”, coprono diversi generi e aperti su molti stili diversi.
È una cosa molto buona , così riescono a far arrivare la loro musica a più persone. Sono molto internazionali poi e questo ci aiuta a diffonderci. Loro vogliono far soldi in questo business ma sono molto aperti alle nostre sperimentazioni. Questo è l’equilibrio di cui parlo. Un occhio al mercato e un orecchio alle esigenze artistiche della band. È perfetto. Anche perché, alla fine, tutti dobbiamo fare soldi, in qualche modo dobbiamo pur vivere, no?
Sì, direi proprio di sì. [/column]
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