Li aspettavo al varco, con le braccia quasi conserte i Disclosure. Avevo seri dubbi sul seguito dell’incendiario Settle. Paura dell’effetto plastico di alcune collaborazioni (Mary J su F for You) che non mi avevano colpito e certi atteggiamenti, apparizioni, comparsate che mi avevano spaventato (la foto con Madonna); invece i fratellini probabilmente si limitavano, con mossa furba furbissima, solamente a sparigliare le carte.
Ve lo dico subito, a parere di chi scrive, la prova è pienamente superata, in sicurezza e senza drammi; i Disclosure, con Caracal, virano decisi, ma non troppo, verso un pop a metà tra il “paraculismo” furbetto e un suono raffinato e rilassato, da ascolto più che da ballo. I Disclosure rallentano i ritmi U.K. garage e incendiari dell’esordio, lasciando solo Bang That e, forse, anche Hourglass a ricordare i balli di Settle a favore di una morbida house U.K. (Nota Bene: non deep house), lenta ma non troppo, leggera e dal taglio pop, che guarda a un pubblico più verso i 30 che verso i 18 (ecco: una delle paraculate).
Lontani dal voler entrare nelle cuffie delle ormai cresciutine e disperate directioner, i biondini planano in punta di piedi nello spazio vuoto lasciato dai Take That e, volendo, anche George Michael, puntando sicuramente a ingrandire il proprio bacino di utenza e regalando ai fan appena acquisiti qualcosa di nuovo, fresco e probabilmente, dal punto di vista di chi ascolta ora per la prima volta , un filo alternativo.
Presentato così potrebbe non sembrarvi un gran disco: invece lo è, perché dalla loro i due Inglesi hanno una buona dose di stile, sfrontatezza e sono dei professionisti di tutto rispetto che come tali vanno trattati, questo perché nonostante la virata musicale, sono riusciti in due album a creare un proprio sound e un proprio marchio di fabbrica, sia che si vada nei club, sia che si vada a fare da O.S.T. a un negozio di moda ultra cool il sabato pomeriggio in Oxford Street (seconda paraculata). Stilisticamente Caracal s’inserisce in quel nuovo filone pop in cui bazzicano Aluna George, London Grammar, Sam Smith ma anche Julio Bashmore e compagnia cantante (tutti tranne Bashmore presenti nel primo lavoro, il caso vuole); ospitando un parterre di ospiti da gran gala, il disco bissa le ottime impressioni della prima uscita creando un lavoro completo, ben prodotto, liscio e soprattutto molto omogeneo, capace di scivolare dentro la mente per tutta la sua durata, grazie agli splendidi arrangiamenti e a una costruzione delle singole tracce ben strutturata (belle davvero le pause a caricare prima dei singoli ritornelli).
Nel dettaglio: The Weeknd impreziosisce l’inizio dell’album cantando con la massima ispirazione, mettendo subito empatia e attenzione, per cui l’ascolto sin da subito non si fa distratto. È bellissimo vedere come l’autore di Can’t feel my face (il vero tormentone di questa estate) vada a suo agio su bassi tra Soul Clap e Wolf+Lamb, volando su un ritornello che sa di Union Jack e che aspetta solo i cori in fase live. Il sodalizio con Sam Smith si conferma come una delle cose più interessanti in giro nel panorama pop, (firmeranno anche l’ost di 007 e se sei Inglese questo è molto più di un traguardo, è consacrazione assoluta) tra sensualità, petali di rose e profumi di primo autunno. L’apice arriva poi subito: Caracal brilla di luce divina in Holding On, dove mentre Gregory Porter fa Craig David, i Disclosure fanno gli Artful Dodger in un pezzo UK Garage che è tranquillamente la punta di diamante e vertice assoluto del secondo album. Lorde (una che mette Burial in cima ai suoi artisti preferiti, lontana dall’immagine di finta pupa del capo in capelli cotonati e piedi scalzi) riesce addirittura ad apparire sexy e ammaliante in Magnet e LION BABE non è scoperta di oggi; Hourglass sembra meno spaccona, ma ha le stesse potenzialità di White Noise. Anche i pezzi senza feat valgono comunque molto più di qualcosa: Echoes sa di Katy b e ha il marchio Rinse fm ben impresso dentro, mentre Bang That è un omaggio a chi sotto il nome di Audio Bullys una decina di anni fa aveva provato la stessa strada, bruciandosi miseramente e lasciando molti rimpianti.
In chiusura: Caracal è un ottimo album, un gatto furbacchione e meno raro di quanto si descriva, ma è da considerarsi un album pop, fatto nella terra del pop e questo non va dimenticato. Inutile dire come ciclicamente nel Regno Unito ci sia bisogno di consacrazioni, idolatria e anche scene d’isterismo. A volte la storia è stata favorevole: basti ricordare in epoca recente i già nominati Artful Dodger e Craig David, gente che è passata dai club più piccoli e infidi per finire in heavy rotation su MTV. Ora, nella seconda decade di questo secolo le cose sono un po’ cambiate: MTV non so nemmeno se trasmetta più, adesso si passa dal sabato pomeriggio su Rinse fm, dai lustrini sudati e posarecci della Boiler Room, per finire a Glanstobury (500.000 persone non possono non essere testimoni di qualcosa che non sia pop) ma di base il concetto è sempre lo stesso. Di fatto, son passati ormai più di dieci anni, possiamo definire persino Bansky e Burial come qualcosa di pop. Non c’è nulla di vergognoso ad amare il pop, a cantarlo o ad ascoltarlo, non vi è vergogna e anzi, francamente, la scesa dal piedistallo di un certo snobismo non può far altro che bene. I Disclosure in questo non insegnano nulla di nuovo ma confermano, affrontando a petto in fuori la gogna costruita da chi per presunzione o vanità farà di Caracal un album facilmente detraibile, bollandolo come plastica commerciale e semplicemente, sappiatelo, sbagliando. Bello Bello Bello.
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