We are made of our longest day/ we are falling but not alone/ we will take the best parts of ourselves and make them gold
─Make Them Gold
2,3 5,7 potenziali super singoli su undici tracce, un finale per le lacrime più vere (After glow), 3 canzoni che entreranno nella memoria collettiva, sia degli amanti del genere sia di chi affronta per la prima volta questo suono fatto di tastiere, ritmi e voce angelica. Nessun calo di tensione se non per un unico pezzo, quello cantato con un’impostazione tra Bon Jovi e Brian Adams dalla voce maschile del trio Scozzese. Questa la sintesi di un album pressoche perfetto: 42 minuti di vera buona musica orecchiabile, cantabile e di facile memorizzazione anche se non longevo, come del resto tutti i dischi di questo genere.
I Chvrches passano attraverso le forche caudine del secondo album e ne escono più belli, scintillanti e glamour che mai e lo fanno con una formula quanto mai semplice, dai tratti un po’ retrò. Si potrà obbiettare che in fin dei conti i tre di Glasgow non facciano altro che del synthpop (electro pop secondo me non è la definizione adatta), un genere che di suo è già ammaliante e piacione, ma c’è maniera e maniera. Every Open Eye è un disco ben prodotto, studiato e amalgamato: non si discosta molto dall’album d’esordio, formula vincente non si cambia, per cui nulla di diverso se non un approccio più maturo nei testi, nella produzione e nel tappeto sonoro. Tra i Goldfrapp di Head First, un po’ di Depeche Mode, ma anche Prince (amore dichiarato della band) e una devozione alla maniera di produrre di Quincy jones, Every open eye suona proprio come dovrebbe suonare un album di tastieroni: ritmico, talvolta melenso, emozionale, malinconico, ma anche e soprattutto energico. Il suono dei Chvrches di questo 2015 è retroguardia anni 80 con tutti gli annessi e connessi. Retroguardia e non pallido revival, perché gli scozzesi evitano con maestria la linearità continua del suono di allora arricchendolo di stacchi, carichi pre chorus e un’attenzione smisurata ai drum (ecco a cosa serviva ispirarsi a quincy jones) rinfrescando un genere che, trascorsi 30 anni, appare ancora più immediato, strutturato, corposo compatto e senza possibilità di noia. Rispetto a The bones of what you believe vengono ridimensionati i coretti “ah eh oh oh” e la voce di Lauren Mayberry è migliorata nuovamente tantissimo, facendo oramai a gara con quella di Megan dei Purity Ring per il best female 2015 (le Ibeyi sono su un olimpo a parte). Il suono risulta ancora più pulito e curato, il taglio melodico è più intellettuale e propositivo rispetto all esordio che, invece, peccava di un certo calo di tensione dopo la prima metà del disco. La programmazione dei synth è pressochè perfetta: i suoni che hanno fatto la storia e la fortuna degli anni 80 vengono ripresi e rinfrescati, merito di nuovi software, forse, ma sicuramente anche di uno studio sul genere e del genere che i chvrches – nell’epoca del se voglio conoscere posso conoscere – hanno sicuramente fatto, riuscendo anche a non apparire come troppo intellettuali o saccenti.
Just another time we’re caught inside/Every open eyeHolding on tightly to the sides/Never quite learning why You’ll meet me, you’ll meet me/You’ll meet me halfway Whenever I feel it coming on/You can be well aware /If ever I try to push you away You can just keep me there/ So please say you’ll meet me Meet me halfway.
Davanti a un suonare così ben fatto, perdersi nel libricino delle liriche è una sorpresa che fa salire ancora di più il giudizio complessivo dell’album: se negli anni 80 i testi erano spesso (non sempre) sconclusionati, raccapezzati e insignificanti (si potrebbe dire droppati, nel senso quasi dispregiativo del termine) a distanza di una generazione qui cambia tutto: Every open eye è l’occhio vigile su una storia d’amore, il ponte di corda neutrale, ma anche privo di vero equilibrio, dove le sensazioni e i caratteri si incontrano, tra errori, paure e compromessi, nelle incertezze tipiche delle grandi storie d’amore in cui il presente fa più paura del futuro. In questo, Make them gold, Leave a trace e Clearest blue rendono benissimo l’idea e diventano i pezzi bomba di cui si parlava all’inizio. Il sophomore dei Chvrches è un lavoro che punta in alto, emozionando e dando energia, un disco dalle potenzialità enormi e pronto per scalare classifiche (la presenza della major aiuterà tantissimo). 11 tracce che fanno risplendere nuovamente il synthpop, genere che non ha mai perso colpi, sebbene spesso stanco. Privo di forti krautismi alla Trvst o di quella sensazione festaiola con cui ci avevano fatto ballare gli Holy Ghost due anni fa, il disco riporta sugli scudi il 1985/87 in un’ atmosfera da finale del festivalbar all’arena di Verona, ma più sospesa, chiusa tra quella sensazione di sogno o realtà che è forse l’immaginario visivo che il gruppo cercava. Bello, ascoltabile, diventerà per qualche mese presenza fissa nelle cuffie di molti, per poi scivolare in un piacevole ricordo. Come per i Purity Ring o per gli Hot chip, non sono questi i dischi che rimangono a memoria esclusiva, sono dischi stagionali, buoni per l’emozioni del momento, che siano di gioia o di tristezza questa musica è un buon ansiolitico per entrambe, dalla durata breve seppur a rilascio prolungato, pronto per essere sostituito con l’arrivo dell inverno da atmosfere diverse, come l’evoluzione dei sentimenti. Ci si penserà poi con i primi veri freddi, per ora si può ancora godere di una spiaggia ormai senza ombrelloni e vuota, libera, in attesa di lunghe camminate guardando il mare amico o nemico a seconda dell’estate appena passata.