L’antichità non ci è data in consegna di per sé – non è lì a portata di mano;
al contrario, tocca proprio a noi saperla evocare.
Novalis
E’ bello perché è difficile.
Fu questa la frase, un po’ ironica ma senza dubbio vera, con la quale il mio professore di cinema risolse la sua lezione su L’anno scorso a Marienbad. Il corso verteva sulla Nouvelle Vague e dei dieci film proposti, questo fu sicuramente il più arduo da affrontare. Ricordo risatine, sbadigli e tanti sms mandati durante la visione del capolavoro di Alain Resnais. D’altronde l’inizio faceva ben intendere come sarebbe stato il resto del film: inquadrature di soffitti e archi di un palazzo antico a perdita d’occhio accompagnate da un commento sonoro di un organo lugubre e una voce imprigionata in un loop riverberato ad intermittenza.
Bello perché difficile. Lo stesso potremmo dire della musica di Julia Holter, compositrice californiana classe ’84 che, reduce dai successi di critica e pubblico dei precedenti album (Loud City Song, l’ultimo datato 2013), pubblica Have You In My Wilderness. Un disco affascinante e stratificato che, oltre a essere il punto più alto della discografia della Holter, si potrebbe accostare al film di Resnais (al quale la Holter aveva dedicato l’ipnotica Marienbad, in apertura dello sperimentale Ekstasis).
Have You In My Wilderness è obliquo, labirintico e sinistro – e fin qui nulla di nuovo rispetto a ciò a cui ci ha abituato Julia Holter. A fare la differenza qui sono due fattori: la capacità di rendere pop, ovvero compresse in una durata e una struttura relativamente riconoscibile, le derive ambient e avant- che hanno sempre caratterizzato la sua musica; ma soprattutto i testi, vere e proprie storie oniriche. Storie ricche di suggestioni, frammenti, associazioni di idee: storie di luoghi altrove come i saloni spaziosi di una villa antica, storie ambientate in un tempo indefinito (potrebbe essere successo l’anno scorso, o forse ancora prima, oppure ciò che vediamo non è mai accaduto) con un’azione lenta in cui a dominare non è solo la pura immagine, bensì la sua costruzione attraverso la sovrapposizione di flussi di pensiero.
Parlavamo prima di differenze: in Have You In My Wilderness Julia Holter riesce nella difficilissima operazione di condensare classicità e avant-garde, composizioni sbilenche e tortuose ad inaspettate soluzioni pop. Da qui l’appellativo, più che appropriato, di instant-classic. Con un’inedita accezione: la musica di questo disco è sì classica da un punto di vista di articolazione delle strutture, delle intenzioni e dei suoni, ma risulta instantanea, immediata. E’ musica erudita capace tuttavia di farci intuire dove sta andando a parare, anche grazie a continui riferimenti e riverberi. Da qui la grandezza di questo disco: la stratificazione della musica e dei testi della Holter che riescono a evocare un’atmosfera classica e mitologica in una cornice narrativa assolutamente concettuale e post-moderna (ovvero di rielaborazione, composizione e ricomposizione, di referenze e giochi di senso).
Prendiamo ad esempio la cupa bellezza di How Long, con un cantato greve tipo Nico su una base melodica che pare scritta da Gavin Bryars e un ritornello che improvvisamente si apre con una progressione alla Benjamin Britten e recita una frase volutamente frivola come Do you know the proper way to ask for a cigarette?. Impossibile non pensare ai continui abbassamenti di registro all’interno del Canto d’Amore di J. Alfred Prufrock di T.S. Eliot (There will be time to murder and create[…] And time yet for a hundred indecision/And for a hundred visions and revisions/Before the taking of a toast and tea).
O ancora il racconto onirico di Lucette Stranded on the Island, che, un po’ come i romanzi di Alain Robbe-Grillet (autore di L’anno scorso a Marienbad), si propone come una storia tutta da ricostruire attraverso dettagli e suggestioni emotive. Splendido il finale che pare risolversi bruscamente, stemperando una lunga cavalcata con più voci sovrapposte nei territori sonori dei Goldfrapp.
Una menzione speciale va proprio alla voce della Holter, in questo disco più che mai messa in rilievo: una scelta stilistica piuttosto felice e che marca un distacco dall’unicum sonoro dei dischi precedenti. Ogni canzone risulta ben accentata da un’interpretazione vocale a volte marziale, a volte eterea, o ancora che si libra giocosa e sbarazzina come in Sea Calls Me Home, un biscotto dream pucciato in una tazza di latte dove nuotano i Beach Boys di Pet Sounds e che testimonia la forma più pop della Holter.
Everytime Boots è un delizioso spettacolino vaudeville che, con ritmo sospinto e spensierato, ci porta ad un finale magniloquente. Magniloquenza barocca testimoniata dalle sontuose e astratte Silhouette, Betsy on the Roof e Vasquez riescono a riprendere in maniera originalissima i mondi di Air, Bjork e Kate Bush e allo stesso tempo Joni Mitchell, Enya, Bach e Philip Glass, trasportandoci in altri universi o come, scriveva proprio Alain Robbe-Grillet:
…in sale silenziose dove i passi di colui che le attraversa sono assorbiti da tappeti così pesanti, così spessi, che nessun rumore di passi arriva alle sue orecchie, come se persino le orecchie di chi cammina fossero lontane, lontanissime, tra pilastri di pietra su cui mi inoltravo ancora una volta, lungo quei corridoi, attraverso quei saloni, quelle gallerie, in quel palazzo d’altri tempi, in quell’albergo immenso…
Riuscite a sentire l’eco della vostra voce?