Fin dall’alba dei tempi l’uomo ha sentito la necessità di primeggiare, di arrivare primo sugli altri e di porsi in questo modo in una posizione d’egemonia rispetto al prossimo. Bene o male le cose sono andate così anche con internet, inizialmente infatti era tutta una corsa ad arrivare primi ─corsa da cui non si è mai tirato indietro nemmeno il sito che state attualmente leggendo. Ricordate i commenti “First” sotto un articolo? O meglio, ricordate le centinaia di migliaia di commenti “First” sotto un articolo? Ecco quella sensazione di supremazia apparente e labile ha portato nel corso degli anni ─fenomeno reso ancora più evidente dal diffondersi dei social network─ all’impossibilità effettiva di essere “primi”.
Come forse avrete compreso, sto parlando del campo musicale, ma in realtà è un ragionamento un po’ più omnicomprensivo. Ad ogni modo, arrivare primi su qualcosa appartiene ormai al campo della fantascienza ─se non consideriamo i secondi come un intervallo di tempo valido a suffragare tale affermazione. Prendiamo il caso delle premiere: il sito in questione si fa girare il codice del player pur sapendo che nel momento stesso in cui verrà messo on line l’articolo, ci sarà qualcuno pronto a ribloggarlo.
Sia chiaro, la perdita appena descritte non è affatto un male secondo chi vi scrive, anzi, è però significativa la presa d’atto di come ci si sia spostati dalla necessità di essere i primi, di affibbiare in qualche modo il proprio marchio su di un qualcosa, a quella di esserci. Punto. Non parliamo più di esclusività, ma di istantaneità. E se essere primi diventa impossibile allora perde di qualsivoglia valore. Dal momento che a tutti è permesso accedere a tutto, l’importante è essere parte del tutto. Una volta che il ─tana libera tutti─ è dato, possiamo finalmente aprirci e muoverci in nuovi territori, concentrarci non più sul quando, ma sul perché. La cui deriva negativa potrebbe essere l’eccessivo narcisismo tramutato in longform in cui ci interroghiamo ─sarebbe meglio dire dilunghiamo─ anche quando non ce ne sarebbe bisogno, ma questo è un altro problema che, visti gli ultimi trend, forse abbiamo già risolto.
Jon Caramarica fa un’analisi lucidissima sulla questione e la conclude con un lapidario
“the impossibility of being the first will be replaced by the possibility of being the only: me, my taste, I.“
In realtà, proprio la conclusione è il punto dal quale mi discosterei maggiormente, perché se è vero che sono ormai annullate le barriere tra il fruitore e l’artista è anche vero che si è talmente tanto inondati di materiale che un filtro occore comunque. E questo filtro è gioco forza dato dai media di settore. E se anche vogliamo convincerci che il filtro sia il nostro gusto personale e nient’altro, nell’atto di scelta della sorgente da cui attingere stiamo comunque cedendo parte di questa “sovranità decisionale” a qualcun’altro, che sia una persona che reputiamo valida o un sito internet.
Ho chiesto però ad altre due persone, Francesco Farabegoli ed Enzo Baruffaldi, di aiutarmi in questo ragionamento virtuale sul concetto di “PRIMO” e sulla sua perdita di significato. Francesco è conosciuto col moniker disappunto ed oltre a Bastonate, scrive su Prismo, Noisey e sicuramente qualche altro sito di cui adesso mi sfugge il nome; Enzo ha un programma radio ed un blog da tempo immemore. Se vi dico polaroid forse capirete di chi stia parlando. Inizia quest’ultimo con le sue riflessioni, segue poi Francesco con una chiosa che parte da un caso concreto ─ps: avrete capito che non sono il massimo con le presentazioni.
La questione del “first” direi che è sempre esistita a un certo livello, ha soltanto avuto un’accelerazione con il mezzo blog e soprattutto con lo stile che è diventato linguaggio diffuso, se non proprio comune. I blog si sono sviluppati in maniera diversa dalle message board o dai newsgroup, le abitudini e i comportamenti di questa comunità online si sono formati in maniera apparentemente un po’ più comprensibile a chi ne stava fuori, e soprattutto i blog hanno avuto un’esposizione diversa, sono subito sembrati più vicini alla “superficie” della comunicazione a cui facevano riferimento, più accessibili ma anche più capaci di amalgamarsi con l’organismo che sfruttavano (chiamiamolo giornalismo musicale, ma anche qui è molto generico). Sono diventati prodotti editoriali quando invece per la natura del mezzo, per la loro tecnologia e il loro stile, avrebbero potuto essere definiti un parassita dell’editoria, quanto meno di quella musicale. D’altra parte, si potrebbe anche leggere il passaggio in maniera inversa, come un’assimilazione: i blog potevano essere una valida alternativa, una fanzine universale e invece per la maggior parte sono finiti a ripetere le dinamiche della stampa.
Questo come contesto generale ─ok, anche “generico”, perdona la fretta. Una delle caratteristiche di questo nuovo mezzo è/era la velocità. Pro e contro: immediatezza a scapito dell’approfondimento. I materiali di cui si parla sono ormai del tutto digitali ─musica, video, parole: nell’euforia collettiva è passata la modalità secondo cui non aveva senso non parlare subito di qualcosa che era disponibile ─vedi fenomenale articolo su cultura del leak musicale del New Yorker. Tra parentesi da qui deriva il corollario: quale senso aveva ancora infilare tra te e il pubblico il dispendioso passaggio intermedio della traduzione su carta? ─la domanda ha una risposta, almeno per me, solo che è una risposta che è cambiata da dieci anni fa a oggi. Infine, la velocità implica competizione: “primo!” era una maniera infantile quanto vuoi ma impossibile da rimuovere, impossibile da non sentire, quando si adoperava il mezzo. In un certo senso mi pare che si rinnovi in questa generazione post social network, anche se per altre vie, vedi il successo crescente di una piattaforma come Human Human (che meriterebbe da sola un articolo per raccontare come funziona, come ti fa percepire la musica) oppure il widget giochino Found Them First di Spotify di qualche settimana fa. Questo mi ricorda di inserire qui anche un altro fattore nel discorso. La modalità dei blog nel frattempo non era più soltanto proprietà di pochi. Tutti sono diventati publisher, comunicatori, recensori. Uno dei motivi per cui il mezzo blog ha perduto rilievo è anche il fatto che non è stato superato, ma è diventato il minimo comune denominatore della comunicazione.
Basta fare un giro su Hype Machine e guardare la classifica dei brani più popolari, e poi cliccare chi ne sta parlando. Nove su dieci sono blog che postano una foto più due righe di testo (“The new single from the long awaited debut album out next month” e poco altro) più l’embed di soundcloud.
Tutta questa fretta per essere poi nel mucchio con altri diecimila blog. C’è una certa contraddizione, ma rivela anche qualcosa del meccanismo stesso con cui si è comunicata la musica negli ultimi dieci, quindici anni. La necessità della parola “premiere” nei titoli in home page, nelle relazioni con gli uffici stampa e le etichette.
Io capisco tutto questo, immagino di avere avuto anche io una “fase first”, nel mio piccolo. La frenesia dei download, dei kbps stellari su Soulseek, la ricerca dei torrent o la decifrazione dei captcha che ti porta via più tempo che l’ascolto di quello che cercavi. Ma, per parlare in prima persona singolare ─interessante fino a un certo punto─ io non mi ci ritrovo più da un po’ di tempo. Sia come persona, sia come tizio che ha un blog che del tutto accidentalmente è online dal 2001. Potrei postare su polaroid cinque canzoni al giorno alla maniera di Hype Machine, potrei avere molto più traffico, potrei inseguire debutti dopo debutti (e mai uno che vada a vedere cosa fa due anni dopo la band che avevi “scoperto”), potrei insomma darmi da fare. Ma c’è una cosa che tutto questo (sia la cultura del first, sia la sua presunta/possibile estinzione, così come la racconta Caramanica) non tocca: ed è quello che “capisci” di un disco, di una canzone, di una band. Quello che ti fa, per usare un’espressione banale ma di cui non voglio cercare sinonimi, “sentire”. Il modo in cui la musica dopotutto dovrebbe cambiarti, emozionarti, commuoverti o anche solo divertirti. La musica significa ancora qualcosa, anche nell’era dello streaming: perché dovrei parlare di musica solo per essere presunto primo? Perché tenere ancora in piedi tutta questa bizzarra baracca se non per raccontarti che ho trovato una cosa bellissima e vorrei condividerla con te? Ti faccio un nastrone. Io sono cresciuto con queste parole. Io ero così e vorrei provare a rimanerlo. Il traffico web va da un’altra parte, me ne rendo conto. Dei dischi che più mi hanno colpito nel 2015 mi sono accorto di avere scritto sempre un sacco di tempo dopo l’uscita, settimane o mesi. Un suicidio per un blogger professionale, immagino. Ma non sarei capace di dirti cosa significano per me le parole di una canzone dopo un solo play. Non ne vedo nemmeno l’utilità sinceramente, se non quella di accreditarti come riferimento per quelli che vengono dopo di te. Giustificazione validissima, ma che per me lascia tempo che trova. In questo senso il titolo della rubrica di Stereogum “Premature Evaluation” è abbastanza appropriato. Molto più candidamente, io voglio continuare a fare ancora la sola cosa che tutto quello di cui stiamo parlando sembra curarsi di meno: ascoltare. Provare il piacere del tutto unico che ti può dare un disco in cui ti riconosci. E a questo livello, non c’è first che tenga.
Esiste un cimitero apposta per i pezzi che non sono arrivati in tempo. È un posto abbastanza lugubre anche se è popolarissimo di gente, di pezzi che avrebbero potuto essere fichi e importanti e noi abbiamo deciso che tutto sommato il mondo avrebbe potuto sopravvivere senza. Somiglia alle sere in cui si fa il torneo di marafone al bar dei comunisti in un paese vicino a quello dove sono nato, nel senso, c’è la gente che sta lì e si lamenta e urlano tutti come dei pazzi e il casino non si sente fuori dal bar.
Due settimane fa ho buttato via un pezzo su Miss Italia. Lo stavo scrivendo il giorno che era scoppiata la polemica, poi ho avuto qualche cosa da fare -probabilmente è ricominciato il lavoro il pomeriggio o mi è arrivata una email o non so nemmeno io cosa. Non ho finito il pezzo. Era carino, se la prendeva un po’ col concorso, il contesto, un certo tipo di mentalità televisiva. Poi insomma, non l’ho finito. Qualcuno la sera aveva fatto uscire qualche commento su Facebook o Twitter e s’era concluso che sì, tutto sommato quella cosa che la tizia aveva detto prima di vincere Miss Italia non era poi tutto questo problema. Il giorno dopo avevano cambiato bandiera in tantissimi e il pezzo non avrebbe avuto più senso. A fine anni novanta scrivevo già cose di musica, poca roba per qualche fanza. Compravo i dischi o me li facevo masterizzare, li ascoltavo dieci volte e poi mandavo un pezzo ultra-documentato e molto noioso, magari per fax o imparando cosa cazzo fosse un’email. Poi aspettavo quattro o cinque mesi per vedere il pezzo pubblicato, oppure non vederlo pubblicato, oppure che la fanza uscisse e non ci fosse modo di trovarla fuori da Barberino del Mugello. A un certo punto mi è arrivata internet a casa ed era tutto un fiorire di fanze, siterelli e cose simili. Potevo scaricare le canzoni di un disco da Napster, scrivere una recensione su Word e mandarla via email a qualcuno che l’avrebbe pubblicata, e qualcun altro l’avrebbe letta e magari se ne sarebbe parlato su un forum, il tutto al costo della connessione. Poi le connessioni sono diventate più veloci ed economiche e i mezzi si sono evoluti e sono diventati tutti personali istantanei e spietati. A scrivere, grossomodo, ci vuole oggi lo stesso tempo che ci voleva sedici anni fa.
Così capita che inizi e il tuo pezzo prende un’altra forma e s’ingrandisce e poi vai un attimo a preparare la cena e quando sei tornato alla scrivania il tuo pezzo ha fatto la muffa o ne è uscito un altro uguale, e comunque non è il caso di continuare, e il tuo pezzo va a finire in un cimitero di bozze, di magari domani che a volte son vecchi di cinque anni.
Man mano che i pezzi si accumulano aumenta la sensazione di aver perso il polso della realtà, e forse è la stessa cosa che è successa a tutti gli altri giornalisti musicali, quelli che ora hanno cinquant’anni e si scavicchiano il loro feudo equo e solidale. Io boh, continuo a scrivere. A volte, sempre meno spesso, mi sembra di continuare a stare al passo. Altre volte mi devo accontentare di rileggermi dopo qualche tempo. A questo giro, così a caso, costringo anche chi legge. Tanto si parla di non essere sul pezzo. Giusto? Io di quel video non riesco a vedere oltre la pura situazione: tot ragazze allineate in piedi, con un costume ridicolo e un sorriso smagliante; tre esperti di figa dietro a un tavolo, uno fa una domanda idiota. La contendente è impacciata, non perde il sorriso, prova una risposta. Ho detto cose molto più stupide in pubblico, ma mi sento comunque una persona molto migliore di lei. Il meccanismo dietro al tutto richiama vagamente quel programma agghiacciante di Teo Mammuccari in cui selezionavano le Veline di Striscia, centinaia di ragazze che s’offrivano volontarie per venire sfottute o vessate o tutto quello che ci sta in mezzo, una o due alla fine della cosa riescono a svoltare. Domanda: in quale altra epoca storica avresti voluto vivere? Risposta possibile: 1991, fregare la Colombari a Miss Italia, sposare un calciatore, girare il pianeta, avviarmi ad una composita vita adulta da regina dei selfie allo specchio del bagno. Internet voleva una cosa più alla Valentina Nappi? Suppongo la giuria non l’avrebbe presa bene. Te l’immagini? Jeff Walker tra i giurati: “mi parli del collo del suo utero”. Può essere definita stupida una persona interrogata in modo stupido all’interno di un contesto degradante? Non lo so, suppongo che le persone facciano quel che va fatto.