Oxnard, California meridionale, è una città particolare: è composta per due terzi da ispanici di cui la maggior parte lavora nei campi di fragole dell’Oxnard Plain. Ve li immaginate? 520 chilometri quadrati di fragole, forza lavoro e trattori con Los Angeles a sud-est, l’Oceano Pacifico ad ovest e a nord le Frazier Mountain, il Monte Pinos ed il resto del comprensorio montano della contea di Ventura.
Il tutto conferisce al luogo un aspetto molto rustico e parzialmente fuori dagli schemi losangelini ─talvolta oppressivi quanto la coltre grigia di smog. Un ambiente che non può piacere a tutti i suoi abitanti, perlomeno in giovane età. Nell’8 agosto del 1986 in quella città nasce Brandon Anderson Paak, da padre afroamericano e madre koreana (adottata e cresciuta a Compton negli anni cinquanta); è il terzo di quattro figli, due sorelle più grandi e una più piccola che immergono sin da subito il giovane Brandon in una vasca di R’n’B degli anni 60/70 e all’hip-hop degli A Tribe Called Quest. A 12 anni, con il supporto dello zio, riesce a portare avanti le sue qualità canore e impara a suonare la batteria sulle ritmiche dei Beatles e di Neil Young. Si impratichisce suonando nella chiesa battista della sua città dove tutt’ora, qualche domenica, lo si trova ad accompagnare i canti della messa. Il suo interesse per la musica cresce con gli anni e inizia ad approfondire la storia del rock, scopre analogie col blues e il soul, applicandole al cantato. Scopre quanto i bianchi abbiano rubato dai neri quando si parla di musica (e non solo).
Nel 2011 ancor prima di iniziare a girare per Los Angeles, viene beccato a lavorare in una coltivazione di marijuana e si ritrova in mezzo alla strada senza casa, con una moglie, un bambino da sfamare e un album pronto per essere rilasciato; ed è in questo periodo che l’amicizia con il cantante-mentore Sa-Ra aka Shafiq Husayn e il rapper Dumbfoundead si rivela fondamentale per la sua rivalsa artistica e, conseguentemente, economica. Viene alla luce così O.B.E. Vol. 1 sotto il nome di Breezy Lovejoy.
Grazie a questo disco e ai diversi concerti con Dumbfoundead, il suo nome inizia a girare tra i quartieri di Los Angeles, soprattutto in zona Koreatown; 5 mesi dopo ecco un nuovo lavoro, LOVEJOY, un altro piccolo miracolo di Brandon che lo spinge sempre più nell’olimpo dell’R’n’B moderno.
Ma Brandon ha un obiettivo: condividere tutta la spiritualità che mette nelle canzoni con l’ascoltatore, riuscire a coinvolgerlo non solo con le emozioni, ma anche con lo spirito. Il primo passo è il rilascio di Cover Art un processo inverso alla rapina bianca: un nero che prende pezzi simbolo di grandi gruppi rock e li restituisce al proprietario originario con un rework definitivo che merita una dozzina di ascolti ed anche un download gratuito.
Il 2014 è definitivamente l’anno del successo: produce 14 delle 16 tracce di All You Can Do di Watsky e qualche mese dopo rilascia il fortunatissimo Venice, oltre alle collaborazioni con TOKiMONSTA, e la nascita di NxWorries ossia Anderson .Paak e l’amico Knxwledge (intervistato anche da noi) sotto Stone Throw Records.
Le qualità del ragazzo sono tante e se ne accorge anche Dr. Dre: in Compton lo troviamo presente in 6 tracce ed è proprio per quelle tracce che ora sto qui a scrivere di lui. Dopo l’inevitabile polverone provocato da Compton, Brandon si dedica alla collaborazione col duo Blended Babies per rilasciare The Anderson .Paak EP, una bomba funky/hip-hop fin troppo sexy, dopaminica ma che tende ad un’omeostasi, un equilibrio dinamico dove abbiamo un ragazzo, anzi un uomo, che non ha paura di progredire guardando agli errori della vita.
“A star is born.”