Conosco Fulvio da un po’ e sono stato molto contento di ascoltare qualcosa tratto dal suo nuovo disco. Contento per vari motivi, perché a livello di suoni ho percepito qualcosa che non provavo da tempo, per l’entusiasmo che è emerso dalle sue parole quando mi ha scritto e per altri motivi che ho pensato fosse più saggio mettere per iscritto, a futura memoria sua e di tutti noi. Perché bene o male, tutti prima o poi riceviamo un bel frontale emotivo. Una volta presa la botta è importante sapersi rialzare. Per Fulvio aka ReddKaa, il rialzarsi si chiama Salgari.
Buona lettura e buon ascolto.
Ti si vede in giro fare cose: “l’Iva funesta”, Ensoul, ReddArmy, ma come musicista? Che fine hai fatto? Hai smesso?
È una domanda che mi sono fatto anche io, un sacco di volte e per un sacco di tempo non ho saputo cosa rispondere nemmeno a me stesso.
La prendo larga. Dopo quattro anni di lavoro in una cantina, come tanti di noi, dopo avere lavorato con infinita pazienza una dozzina di tracce, pubblico “L’esercito del sole” dei Madrac. Featuring e video con Caparezza, i Cor Veleno, Skerrit Bwoy del giro Major Lazer, One Love Hi Powa, Dean Fraser; anteprima su XL di Repubblica, intervista su Deejay television: un incrociatore preparato per anni che dopo un tragitto di pochi metri miseramente affonda in un piccolo, piccolissimo stagno di indifferenza. La band dopo qualche concerto si scioglie, io resto con un buco di un paio di decine di migliaia di euro e una muraglia di dischi invenduti in garage che ogni volta che parcheggio l’auto mi ride in faccia. Una storia come tante, niente di originale: ma per chi per quattro anni la musica è stata “questa è la mia ragione di vita”, passando sopra a tempo libero, amicizie, amori, tirando la cinghia e limitando le uscite è un frontale con un camion. Quando uno dei tuoi musicisti ti dice “io non voglio diventare come te, voglio avere una vita” capisci che qualcosa è deragliato dal binario, ed è deragliato per nulla o quasi.
Un bel frontale emotivo: dalla fine della band ci vogliono tre anni prima che io riprenda in mano uno strumento. La musica continua a mandarmi qualche segnale: ogni tanto mi arriva qualche idea, qualche riff, ma io mi giro dall’altra parte, e mi faccio ancora più amaro. Se l’incrociatore ha fallito, perché varare anche una singola barchetta? Non ci sono più giornali, non ci sono più tv musicali, le radio non badano a chi è fuori dal music control, io sono il nonno di metà gente che calca il mio stesso palco di provincia: perché perdere tempo e denaro se il resto va bene?
Però un cambiamento succede: quando?
Quando mi rendo conto di essere diventato ridicolo, e di stare a fare la vittima quando il resto della mia vita, in fondo, procede a testa alta: scrivo un romanzo, “La stagione della muta” e “L’Iva Funesta” su Wired Italia che va molto bene, apro una SRL, Ensoul, addirittura mi sposo e – guardandomi da fuori – con la musica mi rendo conto che sto menando troppo la viola: è vero, ho beccato una batosta, ma hey, la vita continua e per quanto grossa l’occasione perduta sono ancora qui.
ReddArmy ha fatto le sue cose, e se anche nessuno di noi ha mai ottenuto un successo che non fosse locale questo non mi autorizza a frignare come una bambina. Mi metto a giocherellare con il Korg Gadget sul mio iPad mentre sono sul divano, e riscopro il piacere di sbagliare, di non pensare “devo fare musica perché devo ottenerne qualcosa”. E allora tutto torna bello.
Butto giù un centinaio di bozze, tra le quali emergono una quindicina di canzoni, diverse per composizione ed estrazione, e decido di mettermi in moto per trovare uno/una cantante.
Faccio un po’ di provini, e ci sono due cose che non funzionano. La prima è che l’unica candidata a stagliarsi dal mucchio ha suo malgrado tempi drammaticamente inconciliabili con i miei. La seconda è che – al di là di tutto – mi sembra di ripetermi, di ripetere un meccanismo già abusato, dove in tre minuti dovrei dire cose intelligenti o divertenti senza essere derivativo. Ma tre minuti mi sembrano pochissimi, niente, per quello che vorrei dire. Per quanto mi possa mettere a fare beats trap da sedicenne mi pare tutto vecchio. Quattro quarti boom cha e rieccoci qua. Due palle.
…e una sera invece…
Una sera invece scatta qualcosa. Perché a volte è solo una questione di sentire il “clic” giusto. L’idea del nuovo romanzo che sto scrivendo, “Ilya”, è nata in una frazione di secondo.
E così è successo con “Salgari”, il disco di cui oggi sentite un’anteprima minima. Giro il pezzo a Oliver Dawson e sorprendentemente mi risponde che è la cosa migliore che gli abbia mandato in anni. E capisco allora che – in questo momento della mia vita – ho bisogno di qualcosa che mi lasci le mani libere. Niente voce, niente testi, niente italiano o inglese: solo musica.
Il primo pezzo si chiama “Meet me at charlie’s, Oranienstraße, Berlin“, il posto in cui ho deciso di chiedere a mia moglie di sposarmi. Ma è un’eccezione, visto che il resto del disco è basato su geografie a me sconosciute, dove non posso che immaginare, ed è meno “in quattro quarti”. E improvvisamente mi si toglie un peso dal petto, un senso di oppressione.
Già, perché “Salgari”?
Salgari, l’autore di Sandokan, ha avuto una vita completamente diversa da quanto si possa immaginare: non è mai stato un viaggiatore, ha viaggiato pochissimo, nel nord Italia. Non ha mai visto l’India di cui parlava con la sua prosa fiera e torrenziale, non c’è mai stato davvero: andava in biblioteca e rubava ai libri quel poco che poteva per farlo suo. E c’è riuscito benissimo. Negli ultimi anni ho sofferto di insonnia da iperlavoro: uno dei miei metodi preferiti per riaddormentarmi è stato navigare su Google Earth, perdermi a guardare le foto di Panoramio e a leggermi le pagine di Wikipedia di luoghi esotici, con storie singolari, uniche, sconosciute e suggestive: è stato come ritrovare uno di quei libri di viaggi, ma le storie erano vere. Oodaaq, l’isola più a nord del mondo, Tristan de Cunha, a 5000 km da ogni altra parte, Kargilik, che strappa ogni giorno campi coltivati al deserto del Gobi, il più feroce del mondo, Pyramiden, la città mineraria abbandonata delle Svalbard. Mille posti dove la fantasia ha modo di correre, e non parla nessuna lingua se non la propria.
Dico sin d’ora che lo scopo che mi prefiggo è restare fuori dall’etnico pacco, dal patchouli da mercatino o da quella ambient pettinata da apericena, nè tantomeno fare un disco-mattone ampolloso e vuoto: mi piacerebbe fosse divertente, a modo suo. Questa volta i compagni di viaggio non saranno Prince, Andre 3000, Kendrick Lamar ma piuttosto Jon Hopkins, Steve Reich, Arvo Part, Joe Hisaishi, Federico Maria Sardelli.
Quando uscirà?
Non ho nessun tipo di pressione: mi piacerebbe finire prima “Ilya”, il romanzo, ma scrivere mi richiede molto più tempo che suonare; scrivo una pagina all’ora al massimo, e forse per scrivere ci vuole molta più serenità interiore che non per suonare, che invece è quasi un processo di eliminazione tossine. Penso per la fine del 2016, così, a spanne.
Sarà anche molto aperto a vari tipi di collaborazione: ci sono già un tre quattro illustri volontari, ma la porta è aperta; penso che lascerò gli stem del disco in creative commons per garantirne un uso libero.
Ne approfitto per lanciare un’idea: la musica è uguale a se stessa da centinaia di anni. Sono state definite le scale tonali, le intonazioni del La dai 432 ai 440hz, gli strumenti musicali e i generi, ma la musica è di fatto un processo monodirezionale. Un musicista prepara delle tracce, le condensa in una canzone, e poi le propone al pubblico che le ascolta nella maniera più possibile vicina al modo in cui è stata pensata. Ecco, questo forse è un processo vecchio, e la tecnologia dovrebbe venirci incontro. Una musica futuribile potrebbe essere generativa: il musicista prepara un “seme” che germoglia diversamente a seconda del profilo degli ascolti dell’ascoltatore – questo non è tanto dissimile da quanto in questo momento già profilabile tramite un qualunque Spotify, che sa se ascolti Vasco o Fly Lo – adattandosi alla sua sensibilità nei suoni e nelle scale anche senza doverla per forza compiacere, e nel caso due persone stessero ascoltando lo stesso “germoglio” questo “fiorirebbe” in una nuova forma, bilanciata tra i gusti di entrambi, prevalendo ora sull’uno ora sull’altro in interazioni controllabili da entrambi. No, non sarebbero canzonette da tre minuti, facilmente, ma sarebbe qualcosa di non meno musicale, fuori da un canone oramai esausto.
Non credo sarò io a creare qualcosa del genere ─a meno che Tim Cook non legga DLSO (“Ciao Tim”, aggiunta della redazione)─ però penso sarebbe qualcosa di veramente meraviglioso. In fondo la nostra ricerca della perfezione consiste nell’allontanarci più dalle imperfezioni umane, ma più ci avviciniamo ad essa meno siamo umani, e sviliamo la nostra natura. Forse dovremmo solo aspirare ad essere i migliori uomini possibili.