Sofia Brunetta è una delle voci più belle e poliedriche tra quelle affacciatesi sul panorama nazionale negli ultimi anni. Qualche mese fa vi abbiamo presentato in anteprima il video della sua Low. Quest’estate, al FARM Festival, abbiamo potuto apprezzare dal vivo le doti della cantautrice leccese, lasciandosi sorprendere anche da una bellissima cover di Freed From Desire (sì, proprio il pezzone eurodance di Gala). Abbiamo quindi chiesto a Sofia di scegliere per DLSO dieci tra i suoi dischi preferiti e di presentarceli.
The Beatles – The Beatles (White Album) (1968)
Apro la lista con un grande classico, uno dei dischi con cui sono cresciuta e che mi ha insegnato cosa sia l’arte dello scrivere con gusto e semplicità. Il bianco, il non colore somma di tutti i colori, caratteristica di una copertina apparentemente asettica, ma che al contrario racchiude le sfumature più varie, riunite nel modo più nobile e senza tempo.
Se qualcuno mi chiedesse da dove si comincia a capire come si fanno belle canzoni, io direi dal White Album.
Portishead – Dummy (1994)
Altro disco divenuto oramai un grande classico, a partire dalla mia adolescenza è rimasto un piccolo luminare. Ricordo ancora le prime volte che lo ascoltai, e quanto improvvisamente lo sentii nelle mie corde. Sentivo una ragazza bianca con una vocina tremolante e pulita su floating ritmici, atmosfere noir e pulp, per non parlare dell’orchestralità della composizione, che raggiunge il suo apice nel disco live Roseland NY. Furono una grande rivelazione.
Radiohead – Kid A (2000)
Con Kid A (e poi col fratello Amnesiac), i Radiohead buttarono giù le convenzioni di tutto il pop-rock britannico (e quindi mondiale) degli anni ‘90. Ora non serviva gridare e suonare la chitarra elettrica, ma col codice Morse, volendo, si poteva dire tutto.
Il loro codice Morse, criptico e universale.
The Dead Weather – Horehound (2009)
Avrei forse dovuto inserire un disco dei White Stripes; questo disco però mi piace tanto, perché lo riconduco a quegli anni in cui schitarravo col fuzz e acquistavo vecchi organi Farfisa ai mercatini dell’usato.
Si tratta uno dei tanti esperimenti brillanti di Jack White. Rock-blues torbido e viscerale, accompagnato alla perfezione dalla forte personalità della Mosshart.
Mi fa tutt’ora salire il sangue al cervello.
Tame Impala – Innerspeaker (2010)
Forse se i Beatles avessero prolungato il loro soggiorno in India fino al 2099, sarebbe uscito fuori questo disco.
I ragazzi australiani hanno ricreato una dimensione parallela, un tapis volant su cui portarti a spasso attraverso il paesaggio coloratissimo raffigurato nella stessa cover. Spirali di wah wah (toni bassi ben chiusi, badate bene, se no suona troppo bello), e tutto risuona nei riverberi. Psichedelico.
Frank Ocean – Channel Orange (2012)
Questo disco è il risultato di un equilibrio perfetto. Per me modernissimo ma nel suo lirismo molto crudo (il tema della dipendenza dal crack ne è un esempio), è un viaggio nella vita patinata e sterile di un giovane afro-americano di una buona famiglia di Beverly Hills.
Se Prince non fosse in vacanza, qualcosa di questo disco sarebbe stato scritto e suonato da lui. Un Prince però più cinico. Un disco bellissimo.
King Krule – 6 Feeth Beneath The Moon (2013)
Ho scoperto King Krule non più di due anni fa, e quando ascoltai la sua voce immaginai un omone nero, giamaicano magari.
Poi si svelò il vero King Krule: lui, i capelli rossi e l’acne.
Mi spiazzò completamente, la sua musica mi aveva trasmesso tanta di quella esperienza che mi chiesi come poteva un adolescente scrivere così.
Ninne nanne cantate dal fondo di un pozzo.
È il disco più noir e sognante che abbia mai ascoltato dopo i Portishead.
Hyatus Kayote – Tawk Tomahawk (2013)
Ecco a voi un’altra delle mie più belle scoperte; la loro musica è stata definita soul futuristico.
Tra metropolitano e tribale, loro forse hanno fatto dell’r‘n’b quello che i Tame Impala hanno fatto del rock?
Come dissacrare la fusion e porla su un livello più nobile.
Metronomy – Love Letters (2013)
Piccole drum-machine, piano honky-tonk, polifonie di voci. Gli anni ’60 del futuro. Un concerto a bordo di una piscina, cocktail party lussuosissimi, ma a tarda ora e con la gente consumata ed ebbra. Universi patinati e maliconici, musica da matrimonio per una sposa triste.
I Metronomy li vedo così, e mi piacciono da morire.
Unknown Mortal Orchestra – Multi-Love (2015)
Arpeggi barocchi suonati in discoteche afro da impianti lo-fi.
La melodia, non sempre immediata, a volte la devi inseguire perché sale e scende, è come andare sui pattini in collina, un po’ faticoso all’inizio, ma poi quando sei in discesa è tutto più facile ed è bellissimo.
Un disco che racconta in particolare di incontri e relazioni, senza miele ma bass-lines a go go.