“Non riesco a comporre musica allegra”.
Visionist lo ha ammesso in una recente intervista al Guardian che portava il suddetto e Rabit come esempi di coraggiosa sperimentazione di matrice grime.
L’album di debutto, infatti, vuole essere la rappresentazione sonora di un attacco d’ansia. Ogni pezzo è associabile ad una fase, una sensazione, un sussulto riconducibile al panico.
Il primo è You Stayed: il past simple della permanenza ad indicare una memoria distorta, un dondolo che continua ad oscillare ma si rivela totale allucinazione. Una mano che avrebbe continuato a salutare, qualcuno che non si volta e rimane distante.
Victim isola la mortalità dell’umano: tachicardia e lacrime, synths usati con estrema precisione a dipingere un dolore forzatamente passivo.
Simile lo scopo di Sin-Cere, un composto di colpevolezza e solitudine rumorosa. Visionist si pulisce dei peccati, in veste bianca e sterile.
I marchi di fabbrica persistono: melodie tracciate dai campioni vocali, spesso veri e propri frammenti di voce; pitch e gradi di malinconia sempre variabili.
1 Guarda presenta qualcosa di simile ad un beat, un sottosuolo di hihats e kicks trattati pesantemente; segue I’ve Said, una breve dichiarazione di bass drum puro e diretto, cupa epifania. Vffected preannuncia il crollo, suoni capovolti, il disordine a prefigurare le lustre macerie. La lettera A viene abbattuta come una piramide rovesciata. La mente è un edificio che patisce il peso della fisica: una base tanto fragile non può reggere, forse non vuole nemmeno farlo.
Si è firmato proprio “V”, nella poetica didascalia che accompagnava il suo post su Facebook: la società ci ha convinti di avere bisogno di sentirci al sicuro, quando è da noi stessi che dobbiamo salvarci.Nei due EP precedenti, il suo sound è parso volutamente in contrasto con i titoli: I’m Fine pt I e II digitavano ansia e tormento, in veloci scatti metallici. Ora, per l’album di debutto su PAN (che di recente ha deciso di inglobare e rilanciare Lost Codes, l’etichetta di Visionist), il londinese sceglie di sfoltire il campo, disorientare. Non ci sono strade prevedibili o immediatamente comprensibili, il primo ascolto lascia spaesati.
Visionist si allontana dal grime (o meglio, dalla nuova ondata di grime strumentale) per avvicinarsi semioticamente e sonoramente ad Arca, garantendo però significati raggiungibili, almeno in seconda o terza analisi.Il titolo sarebbe potuto essere Panic, Anxiety, Fear, Self-Loathing. Invece è Safe, di nuovo il vizio dell’ossimoro violento. La title track è la massima espressione di tale contrario, con il caos crescente a minare qualunque certezza.
La personalità consiste nel modo in cui si decide di reagire alle scariche di buio. Visionist dimostra grande profondità, sapienza sonica e concettuale.
Let Me In è la paranoica ricerca di un ingresso, un accesso negato a frustrante intermittenza. Significante e significato combaciano ancora una volta, a riprova della valenza concettuale del disco. Concede e si concede anche attimi di hip-hop, con la lezione del futuro: a sua stessa detta, Louis Carnell non vuole venderci il passato; il suo obiettivo: indicarci l’avvenire. È rintracciabile l’influenza dell’era Hyperdub, così come dell’eterna musica per aeroporti di Brian Eno: si tratta, però, soltanto di un bagaglio di base, un linguaggio di cui il producer assume progressivamente maggior padronanza. Too Careful To Care sembra, a proposito di Hyperdub, il teso e sociopatico pronipote di quella Distant Lights che introdusse al mondo la capacità comunicativa di Burial. Il riposo è un lusso, e Visionist insiste a dimostrarlo. Il suo alfabeto sonoro è sorprendente e incisivo, e -dato raro e prezioso di questi tempi- ha forma propria.
Qui potete ascoltare Safe di Visionist.