And the last two things to leave this planet, will be water and music
La perla donata da Quincy Jones a Kendrick Lamar, intervistatore d’eccezione per Hypetrak, ha tutto l’aspetto di un lucente passaggio di testimone.
Quanto può salire, ancora, quest’uomo?
Kendrick ha i piedi sul divano. Il vecchio saggio al suo cospetto, ventisette inchini per ventisette Grammy, vanta produzioni per i più altisonanti nomi jazz mai pronunciati, decine di colonne sonore, varie e precoci premonizioni in musica della nascita dell’hip-hop e, lì in mezzo da qualche parte, Michael Jackson. Tra i suoi traguardi, l’elezione (più di mezzo secolo addietro) a vice-presidente della Mercury Recs. Fu il primo afroamericano ad assumere tale ruolo in una casa discografica di “proprietà bianca”, quindi l’emancipazione che il comptoniano -successivo a lui di ben due generazioni- auspica e profetizza è in un certo suggestivo modo l’epilogo a cui Quincy sperava di assistere. Proprio K-Dot è l’artista che meglio ha saputo dosare ed amalgamare il variopinto lascito del produttore di Thriller. I primi -a loro, ragionevole detta- ad essere stati se stessi senza compromessi, né comportamentali né verbali, all’interno di un’industria tanto affascinante quanto cruenta, furono gli NWA. Kendrick ha intervistato anche loro, in occasione dell’uscita del blockbuster biografico Straight Outta Compton, acclamato da critica e pubblico, con 180 milioni guadagnati al botteghino ad un mese dall’uscita.
Servisse l’ennesima buona parola, ad una domanda sulla nuova generazione, il gruppo -o quel che ne rimane, pace a Eazy– proclama Lamar miglior interprete attuale dell’intera scena. A consegnare lo scettro a gran voce è Dr Dre, che sottolinea come la preferenza non sia influenzata dal loro rapporto: ha infatti lanciato a tutti gli effetti la sua carriera, e lo ha coinvolto in ampie parti di Compton, l’album ispirato al film, il primo di Dre da solista dopo sedici anni di silenzio e tanti, tanti dollari.
Se Tupac non potrà mai rispondere in prima persona ai suoi vuoti, una simile posizione da parte di coloro che hanno dato vita a Compton -ora esiste, una via d’uscita che non sia blu o rossa- può bastare per consacrare la sua privilegiata, straordinaria concezione del tempo.
Se good kid si “limitava” a scandagliare il tortuoso rapporto tra Kendrick presente e Kenny “young-blood”, TPAB riesce con coerenza a scandire in dettaglio proprio il rapporto del Kendrick adulto con ogni livello storico della sua genealogia. Il tema costitutivo del più recente lavoro è, tra l’altro, il duplice e allegorico rapporto tra un individuo come Kendrick e l’ambiente. Il viaggio in Africa e il ritorno a Compton del rapper come redenzione e rifornimento di saggezza proprio all’apice della sua energia potenziale, rappresenta l’impossibilità di una vera emancipazione di un giovane dalla (breve, mala-)vita nel vicinato. Al tempo stesso, in quanto artista deve far fronte ai dubbi del mondo, un luogo divenuto stagnante e caldo da quando esiste la moneta. L’industria musicale non sembra voler bene ad una farfalla, la solleva per le ali senza usare delicatezza. Siamo nel 2015, eppure gli umani giudicano i loro simili per i pigmenti prevalenti nel loro tessuto epiteliale. Questa è la quantità di argomenti pizzicati (raccontati, dipinti) da K-Dot, questo è quanto è grande K-Dot.
Sta tutto nella diverso dosaggio dei temi: tutti compaiono ovunque, è arduo poter rimproverare lacune nell’indice dei suoi lavori.
Quest’uomo sa tutto?
C’è un occhiolino a chiunque, una nota appuntata a matita in ogni pagina, in ogni riga dei suoi libri, perché risulta sensato definirli così, questi due dischi. Citazioni o asterischi si riconoscono in ogni singolo verso, e si tratta di fortuito fato solo in rare occasioni. Rare sensazioni diventano la norma.
È più vivo degli altri?
Tutta la sua opera è analizzabile a più livelli, ogni verbo lascia spazio a più interpretazioni, e ognuna di esse pare calcolata con rigore, senza mai sacrificare il sentimento.
Un’altra grande mente californiana, Joan Didion, definiva “effetto vortice” il susseguirsi consequenziale dei ricordi, con il fondo a fare da unica direzione preferenziale: good kid è una quasi ininterrotta manifestazione del vortice, To Pimp A Butterfly è un mucchio di superfici di discontinuità tra vortici innumerabili. u e i, gli antitetici pilastri emozionali dell’ultimo album, racchiudono materia psicologica densissima, è sostanza distruttiva e costruttiva, ogni ascolto edifica. Può fare tutto, è in grado di fare tutto quello che vuole immaginare compiuto. A inizio settembre, L’Ed Sullivan Theater ha iniziato il processo di digestione del lutto per l’addio di Letterman, e per la prima puntata del nuovo Late Show, il degno sostituto Stephen Colbert ha chiamato proprio King Kenny. Libertà piena, la mano non trema e il ghiaccio nei suoi occhi è magnetico. Un medley con quattro tracce, i beat riarrangiati per l’esibizione live, con tanto di variazioni strutturali e metriche, naturali e più genuine di un freestyle. La sincerità lo avvolge in un alone di energia, aura scura e pirotecnica, al ritmo di movenze robotiche (ormai nel suo personaggio, di recente carico di gloriose eredità neo-soul). Uscito dal teatro avrà scritto una canzone, magari l’avrà appallottolata e gettata nel cestino con la mano sinistra come Kobe da infortunato, magari avrà subito cancellato la nota dall’iPhone, magari quel mucchio di carta sbavata sarebbe stato il miglior verso della carriera di qualsiasi altro rapper, ma qualcosa non andava, non voleva iniziare a comporre in medias res, serviva un intro prima di tutto, idee chiare dal principio perché niente ferma il tempo, ma niente ferma lui.
La sua adamantina concentrazione e la sua solida consapevolezza dei propri mezzi gli impediscono qualunque passo falso.
Ha fiducia in se stesso, ne ha molta come ogni collega. Il suo merito, però, è averla legittimata, dubitandone impietosamente.
Si pone come un umano, e come tale ha punti deboli. Il suo modo per sconfiggerli non è la banale bagarre torto-ragione in cui trionfa chi si è riempito le tasche, ma una minuziosa analisi di ogni vulnerabilità. Servirà affrontare depressione, paura della fame e della fama, anche a costo di urlare e insultare ognuno di quegli ebbri demoni che non se ne vanno dallo specchio (u), tutto per giungere ad una conclusione: non può sapere cosa voglia l’umanità dalle sue cicatrici, ma l’unico modo per prosperare è amare se stesso (i).
La prima volta che sentii K.Dot fu poco dopo l’uscita di Section.80. Benji B introdusse Hiipower, singolo di uno dei volti più freschi e interessanti della scena. Mi ricordava Kanye, sia per il suo sguardo dritto alle pupille del sistema politico mentre toccava con mano le discriminazioni, sia per la distorsione della traccia vocale in parti del brano, simili a porzioni di MBDTF, uscito otto mesi prima a bloccare ogni possibile fuoriuscita di stupore dai miei pori almeno per un anno.
Inoltrandomi nell’album, trovai facilmente l’originalità di cui cercavo e sospettavo la presenza. La facilità con cui dribblava strutture sintattiche e mentali nel giro di pochi minuti mi fece ossessionare, fino ad osare paragoni di cui non temevo più di pentirmi.
Il resto è storia, good kid è storia -è nei 100 album indispensabili di un infinito conoscitore come Gilles Peterson, giusto per chiudere il cerchio targato BBC- TPAB è storia, forse ancora di più.
Riconsiderando quell’ingenuo, istintivo paragone a quattro anni di distanza, ritrovo gocce di verità. Per portata della sua arte, Kendrick è lì in alto con Kanye e pochi altri. Nonostante Kanye, da musicista totale, abbia più mezzi per trasmettere la sua persona, Kenny riesce ad essere comunicativo in una maniera ancora più personale: non solo non ha eguali a livello tecnico o lirico, ma è giunto al punto in cui gli artisti di cui si circonda -decine, nell’ultimo lavoro- riescono ad interpretare e spennellare ogni singolo colore da lui immaginato.
L’ingegnere del suono di fiducia di Kendrick, responsabile della perfezione geometrica di volumi e frequenze che a buon diritto pone TPAB come standard della black music -raggiungendo in digitale un’accuratezza simile a quella raggiunta da Russell Elevado in Voodoo di D’Angelo– racconta di come Lamar diriga le produzioni in studio: “Rendilo più viola, deve essere più spaziale. Ora verde. Sì, mettici un po’ di verde. Scuro.”
In un recente omaggio ad Eazy-E, Kendrick individua la straordinarietà del compianto rapper nella sua capacità di raccontare la verità in modo diverso, dipingendo davvero quello che accadeva nel vicinato, lo stesso in cui è cresciuto Kenny. Dice di aver capito solo due anni fa l’importanza di quello che stava accadendo. Cantare al mondo la realtà di Compton per filo e per segno, senza orecchie tappate o bende sugli occhi, è ciò che lo ha portato a voler essere Kendrick Lamar, e a diventarlo davvero.
Perché “senza il tuo cortile, non sei niente”.
Nella sopracitata intervista, Dre illustra l’impossibilita di capire l’esigenza di entrare in studio e comporre, sensazione inconcepibile per chi non l’ha mai provata sulla propria pelle.
Retorico, chiede:
«How can you describe a feeling?»
Kendrick sorride.
Lui sa.