Il 30 ottobre uscirà la colonna sonora di Amy, il pluripremiato documentario di Asif Kapadia sulla cantautrice britannica.
Il disco, pubblicato dalla stessa Island Records che gestì i suoi due album, conterrà versioni inedite di vari pezzi, tra live, sessioni acustiche, e medley a cappella; ci saranno inoltre brani originali composti dall’esperto Antonio Pinto, per un totale di ventitré tracce.
In occasione della release, ripercorriamo gli spigoli di un’artista tanto intensa quanto fragile, svanita troppo presto.
“Siamo tragici, insoliti e vivi”. Dave Eggers utilizza questi attributi per descrivere e saldare i frammenti residui della sua famiglia ne “L’opera struggente di un formidabile genio”. L’autoironico titolo costringe il lettore ad un primo approccio leggero, di già divertita curiosità. Giunto a quel preciso e conciso periodo, il lettore –evito l’epiteto “medio”, colpevole ormai di un’accezione ipernegativa- reputerà quel titolo la più accurata recensione del romanzo in questione.
Quei tre aggettivi, singolarmente spaventosi e carichi di dubbio, uno accanto all’altro assumono una forza sovrannaturale. La vita su cui la frase si conclude vale ogni pena mai patita.
Amy Winehouse era tragica, era insolita, era viva. Un aggettivo per ogni lettera del suo nome, finché il mondo, ingordo e sordo, le ha tolto il respiro, lasciando risuonare un breve “Am” senza soggetto.
Mentre Dave Eggers completava il suo debutto, Amy esordiva in locali bui e caldi. Molta più carne rispetto alla sciupata creatura scarabocchiata nei giornali, ancora più anima ad intingere le corde vocali. Con una chitarra scordata, i tacchi che aveva voglia di indossare, e una risata rumorosa che per nulla al mondo avrebbe censurato, entrava in un ufficio dell’Island Records, uscendone virtualmente già ricca e famosa. Stregava pesci grossi e gente ordinaria alla stessa, disarmante velocità.
Proprio la copertina di Frank, registrato da Amy a vent’anni d’età, è sufficiente a descrivere la sua umanità straripante. Il titolo ad invadere lo spazio del nome, “quel diavolo che voglio”, sembra strillare. La spalla completamente scoperta, lo sguardo completamente reale, due guinzagli e un cane; Londra a permeare ogni centimetro del marciapiedi notturno.
“Without girls like you, there’d be no fun”, sorride nel pezzo più onestamente spensierato dell’album. Ed è così che lei ha iniziato, che lei è iniziata. Mai ermetica, sempre pulsante e sfacciata.
Nella pellicola di Asif Kapadia, reduce dall’altrettanto eccellente biografia di Airton Senna, l’afflato terrestre di Amy è tastabile sin dal primo fotogramma. Il primo degli oltre centoventi minuti del film ritrae una Winehouse quattordicenne, raggiante e potentemente intenta a cantare Happy Birthday ad un’amica. Come può non essere tragico, tutto quel talento in un cuore soltanto?
Ripensando al documentario, è facile fondere più scene in un unico ricordo, distorto dall’esito finale di una vita fragilissima e in nessun modo facile. In un filmato inedito, Mark Ronson -alle prime armi, in uno studio esponenzialmente più umile dell’alta music industry in cui bazzica ora- osserva basito la registrazione, in una sola ripresa, della title track che guiderà Back To Black. In quell’istante pulita, Amy stupisce il producer per la facilità con cui crea linee nell’aria, trasudando armonia ora fiorita, ora languida e blu. Nella mia memoria –troppo spesso inceppata- Amy prende in mano un bicchiere, sorseggia dello scotch appena lascia scivolare l’ultimo “black” dalle sue labbra. In realtà, non è così: in quel frangente è pulita, appunto, e la scena in cui il ghiaccio nel bicchiere trema in studio è un’altra, che mostra un’altra sessione di registrazione, più “maledetta”, più tristemente rimbaudiana.
Se noi, osservatori esterni e profani, rimaniamo interdetti dalla confusione contradditoria aggrovigliata dai media intorno a lei, quante nuvole dense poteva sentire in sé Amy, vittima di ogni singolo, invadente tuono dei paparazzi?
L’arte e la celebrità si detestano, si calpestano vicendevolmente piedi e capelli, si tagliano strade, ali, vene. La sorte meschina ha voluto che l’apice della sua fama sia stato proprio “Rehab”: di fronte alla sua figura in cera al Madame Tussaud’s, chiunque penserà a quel lato di lei, solo e soltanto a quel lato, dannato e non abbastanza bello.
Centinaia di anni fa, il poeta John Gay spiegava che l’invidia è, in un modo singolare e facilmente meschino, un encomio. Il film mostra come tale sentimento diventi soffocante, distruttivo, immenso. La vulnerabilità di Amy, il vizio di forma di un individuo troppo reale per vincere: tutto ciò era atteso, i tabloid già stampavano cadute prima che lei iniziasse il primo passo falso.
Le millecento tonalità del suo timbro vocale, le milleduecento espressioni facciali: tutto echeggiava. Avrebbe desiderato una versione acustica della sua esistenza, senza tutte quelle luci a bruciare il tempo. Amava il passato, lo si capiva dalla pettinatura ispirata alle Ronettes, le infinite influenze jazz –Tony Bennett nel documentario rappresenta il giusto, eterno ritorno- e dalla sua abitudine agli alti e bassi, come una vita in codice morse. Il suo passato, però, non lo sopportava. La paura di imparare dagli errori, probabilmente, la forzava a sovrapporne altri, fino a formare un groviglio asfissiante.
Ribalta e retroscena fuse in un unico, rumoroso palcoscenico, bersaglio di chiunque.
Andrebbero spese pagine e pagine e pagine per dire che cos’era, quanto realismo contenesse Amy Winehouse.
Ogni aspetto di lei, ogni occhiolino, ogni imprecazione per sdrammatizzare, dunque tutto ciò che la portò così ripidamente in alto e così impietosamente giù dal nido, è sempre causato dalle dimensioni esagerate delle sue sensazioni, mai direttamente dal suo cedere alle tentazioni.
Sorge spontaneamente facile associare la sua vita alle sue canzoni, ricostruirne i pezzi usando i testi come colla vinilica.Non c’è amore più grande di quello che sente lei, non c’è emozione più autentica: “There Is No Greater Love”, appunto, porta queste tesi.
L’autenticità è quello che la lega, tra gli altri rami del mondo, all’hip-hop. Tra Amy e Yasiin Bey (Mos Def, insomma) scorreva una stima reciproca di rara purezza e proprio con lui progettava di fondare un supergruppo, con l’ausilio di Questlove (batterista dei Roots, non servono ulteriori epiteti) e Raphael Saadiq, musicista polivalente da sempre all’epicentro della musica neosoul.
Usare sognanti condizionali non serve a molto, ma sapere che è esistita rimane confortante, dona una compassione vellutata, celata tra le sue corde vocali, coralli leggeri.
Anche “Amy, Amy, Amy” compare nella tracklist di Frank, il suo lavoro più spontaneamente puro. Sembra un rimprovero, un promemoria appeso allo specchio con un pezzo di scotch bagnato.
Ora non può più ascoltarsi.
Ascoltiamola.