A tre anni, Kamasi Washington ricevette in regalo una batteria. Iniziò a suonarla immediatamente, con lo stupore di tutti gli invitati alla festicciola. A quel punto arrivò un bimbo di due anni, il cui padre suonava insieme al padre di Kamasi. Si sedette alla batteria, suonò come un adulto esperto, rubò la scena al piccolo Washington e a chiunque altro. “So, there was actually a baby playing drums like a drummer”, racconta il sassofonista al pubblico, ormai sciolto e assorto.
Quell’evento, spiega, lo convinse anni dopo a dedicarsi ad un altro strumento.
Risultato: il neonato prodigio è uno dei batteristi sul palco, e Kamasi gira il mondo in tour con giganti di ogni sorta (Snoop, Kendrick, FlyLo, Thundercat), e ad oggi gode di una visibilità di questi tempi più che rara per un giovane jazzista. Trentaquattro i suoi anni, trentadue le unità d’orchestra coinvolte in The Epic, a mani basse uno degli album dell’anno. Sul palco presenziano solo otto individui, ma è un numero sufficiente per ricreare l’impeto onirico del disco. Ne suonano circa la metà, ovvero appena un’ora e mezza. La fiducia reciproca che fluisce tra loro è stupefacente, palpabile negli sguardi dei due che a turno lasciano la scena agli assoli: il contrabbasso elettrico sembra un prolungamento del corpo di Miles Mosley, la sincronia delle due batterie le rende quasi inscindibili, il trombone dà sapore, Brandon Coleman alla tastiera suona un inedito che Kamasi stesso definisce uno dei suoi pezzi preferiti di sempre.
C’è più vita in loro che negli altri, e vederlo è bellissimo. I soliti californiani, i soliti (insoliti) intrecci di terre e influenze. Il vorticoso alternarsi di funk, jazz e soul travolge e sorprende, in un’ode a mille grandi della storia. Il Coltrane di ogni epoca, schizzi di Miles, Weather Report, Funkadelic e Chick Corea: tutto, qui ed ora.
Quindici minuti dal termine del concerto.
Un assolo come un altro tra tutti quelli di Kamasi, solo con più sudore e più teste incantate rispetto ai virtuosismi della prima metà del live.
C’è una differenza in più, però.
Un uomo sul palco, armato di soprano sax, osserva il delirio creativo del giovane davanti a sé senza scuotere il cranio, forse è l’unico lì dentro a guadagnare quel distacco.
Dopo qualche centinaio di secondi accenna un sorriso, subito individuabile come fenomeno eccezionale e pregiato, che rimane stabile, un semaforo amico e ammirato. Si tratta di Rickey Washington, e ha messo al mondo quel tenor sax.
Che cosa possa volere in più un umano da un momento del genere, è forse un quesito che nemmeno Kamasi saprebbe districare: l’approvazione del padre, non di un creatore qualsiasi ma del suo, specifico genitore.
Il figlio lo presenta al pubblico come colui che ha insegnato l’arte a tutte le unità strabordanti d’esistenza presenti sul palco.
Tutto ciò in un luogo piccolo, quasi angusto, dove ogni movimento conta. Ogni dito sollevato ha una conseguenza, ogni responsabilità va presa per capire il peso di quel pianeta che ci sta dietro, spesso spietato.
Il brano più accessibile dell’intero album, o meglio dell’intero viaggio, è Henrietta, Our Hero.
Non è chiaro il riferimento nominale, che dopo una rapida ricerca potrebbe richiamare H. Lacks, una donna diventata suo malgrado fondamentale per lo sviluppo medico, oppure un famoso pollo nato con quattro zampe.
Qualunque sia il personaggio corrispondente, la protagonista del testo è un’entità speciale.
Patrice Quinn, con una pettinatura afro e una visibile spiritualità degne dei più incontrollabili anni ’70, sembra raccogliere energia dal cielo mentre canta, con l’altra mano fissa al petto.
“La migliore voce al mondo”, insiste Kamasi in disinvolta beatitudine.
Al termine del live si respira gratitudine, nessuno osa smettere di emettere calore.
Ci sentiamo tutti, volenti o nolenti, come Henrietta:
impavidi e luminosi.