This is the love crowd right? We all love each other don’t we?
Am I right? Let me hear you say ‘Yeah’.
Otis Redding@Monterey International Pop Festival
Tra il 16 e il 18 Giugno del 1967 a Monterey, stato della California, 200.000 persone provarono qualcosa di simile a un orgasmo multiplo. Quasi a voler idealmente inaugurare quella calda, caldissima stagione della Summer of Love di San Francisco e a battesimo della cultura hippie e della beat generation, il Monterey International Pop Festival chiamò a raccolta la crema della crema della musica folk, rock, blues, psichedelica e soul del periodo. Qualche nome – che suona un po’ come una lezione di storia della musica: Simon&Garfunkel, The Byrds, Jefferson Airplane, The Who, Ravi Shankar. E, visto che di storia si tratta, le giornate del 17 e il 18 Giugno entrarono di diritto nella leggenda con le performance (brevissime come era la regola) di Otis Redding, la prima volta davanti ad un pubblico non solo nero, e di Jimi Hendrix, allora pressoché sconosciuto al pubblico americano. Se la prima fu un’esperienza mistico-collettiva in cui Otis, a mo’ di preacher-man, sollevò gli spiriti e i corpi di un pubblico in delirio (beh, non è questo poi il compito della musica soul?), Jimi fece solamente nascere un’espressione mitologica: incendiare le folle.
Non stupitevi, quindi, se quasi 50 anni dopo sculettate come degli ossessi sulla musica degli Unknown Mortal Orchestra, band di Portland capitanata dal neozeolandese Ruban Nielson, mente, anima e core di un progetto musicale che fonde psichedelia e rythm’n’ blues. La chitarra satura di Jimi, talmente gonfia e lanosa, è ora usata come timbro caratteristico della chitarra degli UMO – basti menzionare tracce come Thought Ballune o One at a Time; il groove robusto eppure vellutato delle canzoni di Otis è ben rintracciabile in pezzi come So Good at Being in Trouble.
Non a caso:
Beh, sul fatto che Ruban sia un patito di musica nera, non abbiamo francamente dubbi. La prova provata è l’album uscito quest’anno, Multi-Love, ricco di composizioni che grondano blackness da tutti i pori e attingono a piene mani da diverse decadi. Prendiamo ad esempio la voce. Non dotato di un timbro profondo o tipicamente soul ma con uno swing efficacissimo, Ruban impara la lezione del mitico falsetto “svisone” (ovvero pieno di note accennate, prese in punta di voce, a mo’ di toccata e fuga) di Marvin Gaye e Stevie Wonder. Ascoltiamoci Higher Ground, giusto per capire:
Proprio Stevie Wonder ci traghetta nel mondo Motown che, insieme alla Stax Records, appaiono alla luce della musica degli UMO come due facce della stessa medaglia. Da una parte il funkettone trascinante come una locomotiva impazzita, dall’altra la coolness disarmante di Isaac Hayes. Nell’impossibilità di stabilire una superiorità di un’etichetta sull’altra, scegliamo quella dove rintracciare più affinità con le produzioni degli UMO. Vince la Motown per quel groove inconfondibile che troviamo in pezzi come questo:
Se menzioniamo il groove, è da pazzi non fare un focus su batteria e basso degli UMO. Il primo elemento ritmico è robustissimo, granitico: impossibile non pensare a pezzi come Hard Times di Baby Huey o Nowhere to Run di Martha Reeves&The Vandellas; il basso è coerente con la migliore tradizione funk e si inerpica su scale slappate fino ad arrivare a grandissimi giri degni della migliore disco. E quando parliamo di disco-music, la testa va ancora lì, a Detroit:
Non ultima: la sensualità. Le composizioni degli UMO sono pregne di una notevole carica erotica: fatevi un giro su Automatic di Prince per sguazzare in qualcosa di ritmicamente simile. O ancora pescate a piene mani dalla cosiddetta deriva “psychedelic soul”: Chambers Brothers, The Temptations di Cloud Nine, Inspiration Information di Shuggie Otis, Curtis Mayfield (questo brano, per sempre).
Andate e viaggiate. E che il poli-amore sia con voi.