In materia di post-hardcore e emo(core) l’Italia può ormai vantare una tradizione consolidata. Band come La Quiete, Laghetto e Fine Before You Came sono riuscite ad imporre all’attenzione e a introdurre nelle corde del pubblico nostrano un genere estremamente variegato e sfaccettato, nato a metà degli Ottanta negli Stati Uniti sulla scia di quanto seminato dai Fugazi e dalle band di etichette seminali come la Dischord.
Tra le etichette italiane più attive nel genere non si può non citare l’umbra To Lose La Track, per quale in questi anni sono usciti i dischi di Gazebo Penguins, Riviera, Verme e non ultimi i Lags.
Questi ultimi vengono da Roma – sebbene i membri vantino origini da svariate parti d’Italia – e hanno recentemente esordito con l’ottimo Pilot, un compendio perfetto della storia pluridecennale capace di imporsi per personalità e qualità. Un disco che, considerato anche il cantato in lingua inglese, meriterebbe di essere esportato oltre i confini italiani. 11 pezzi da cantare a squarciagola e su cui dimenarsi in un pogo liberatorio.
Abbiamo chiesto alla band – nella quale alla batteria siede il celebre atleta Andrew Howe – di stilare una loro personale lista dei cinque dischi post-hc/emocore più sottovalutati. Una buona occasione per andare oltre i pluricelebrati classici del genere e scoprire gemme poco note a chi non è appassionato duro e puro del genere.
Settlefish – Dance A While, Upset
Esordio discografico della band seminale che in una parabola lunga poco più di un lustro (tre dischi e un EP acustico) ha sublimato e completato i canoni estetici di un genere già ben codificato. Crescendo post-rock, echi math, estetica indie rock, deflagrazioni noise e urla e spleen tipiche del genere. Dall’Emilia Romagna alla statunitense Deep Elm (etichetta di culto in ambito EMO-CORE) per uno dei migliori esempi di rock anglofono dello Stivale. Troppo belli, troppo importanti, “troppo poco italiani”. (cit.)
Jawbox – For Your Own Special Sweetheart
Band fondamentale degli anni ’90, solo sulla carta purtroppo. Dalla Dischord di Washington alla Atlantic. For Your Own Special Sweetheart non è semplicemente il loro terzo disco e il loro esordio su major. E’ un frullato di tutto il buono che c’era stato in ambito post-HC/emocore, indie rock, noise e grunge, tutto in maniera molto personale, con una produzione curata nei minimi dettagli e con un appeal pop e un senso della melodia invidiabili. In un mondo ideale dovrebbero essere ancora attivi e con un seguito da super band alla stregua di Foo Fighters et similia. Nella realtà sono semplicemente una band di culto da infognati del genere. Coverizzati persino dai Deftones.
P.S.: il leader J. Robbins è diventato un produttore richiestissimo (Promise Ring, Jets To Brazil, Jawbreaker, Against Me! ecc.)
The Rituals – Celebrate Life
Nonostante non si possa parlare affatto di post-HC i The Rituals sono una delle poche band italiane capaci di mischiare anima punk ad un approccio rock ed indipendente completamente fuori dagli schemi prestabiliti dalla “scena” musicale italiana. Un disco che avrebbe dovuto sancire la loro affermazione nel panorama nazionale dopo lo sconvolgente The Past Twelve Months; eppure qualcosa deve essere andato storto, perché questa conferma, purtroppo, non è mai arrivata dal grande pubblico. Nonostante ciò Celebrate Life rimane un album di culto per buona parte dei musicisti italiani del panorama indipendente e il nostro amore per The Rituals rimane incondizionato.
Trip Fontaine – Lilith
Quando uscì Lilith dei Trip Fontaine in molti pensarono da subito che ci trovassimo di fronte ad un progetto che da lì a breve avrebbe cambiato le sorti del post-HC europeo. Energici, compatti, ottimi musicisti e band dalla creatività assoluta. In questo album si mischia punk, hardcore e post-rock in modo equilibrato e totalmente innovativo. Una band tedesca che non ha mai ricevuto la visibilità che meritava, forse anche a causa dei “piccoli” falsi passi delle produzioni successive.
Christiansen – Stylish Nihilists
Che dire di questo disco dei Christiansen? Nel 2003 non si parlava d’altro, tanto che Revelation Records ci aveva visto lungo producendo il loro secondo lavoro Stilysh Nihilists. Un progetto considerato fondamentale ai tempi e una band troppo facilmente paragonata agli At The Drive-In, nonostante ci trovassimo di fronte a ciò che il quintetto di El Paso non era mai riuscito ad essere fino a quel momento (dal punto di vista sonoro e tecnico). Un album nel quale persino Daryl Palumbo dei Glassjaw, considerato in quegli anni il profeta indiscusso del genere, aveva voluto partecipare in ben due brani. Compatti, melodici e catchy al punto giusto, ironici e in parte anche controversi. Un disco che ancora oggi ha moltissimo da dire.