[column size=”2/3″ center=”yes”]Sarcastica e fuori dagli schemi, sinistra e allo stesso tempo seducente. Questa è la musica di Oscar Powell, la quale affonda le proprie radici in The Ongoing Significance of Steel & Flesh, lavoro bleak dalle ritmiche scheletriche e coerente evoluzione del suono Sandwell — tanto che Karl O’ Connor ne è un primo supporter —, dal quale il londinese ha in seguito ampliato il vocabolario. Un percorso che lo ha condotto ad una formula spigolosa, ruvida e imprevedibile — così come i suoi djset, eclettici e schizoidi —, che individua in Club Music il proprio spartiacque. Un lavoro viscerale, tra riduzioni post-punk, funk robotizzato e BPM in rampa di lancio, in cui il londinese acquisisce oltretutto maggiore confidenza col rumore e l’editing: questo grazie soprattutto al sempre più stretto contatto con Russell Haswell, noisemaker noto per il suo approccio provocatorio. Un rapporto che gli ha permesso di maturare una visione senza compromessi della propria musica, che andasse oltre agli stereotipi della club music contemporanea — da qui il sardonico titolo dell’EP — e lo interrogasse sull’esperienza del dancefloor. Un’esperienza vessata troppo spesso da machismo e manierismo, perversioni di cui Powell vuole spogliare il club per ripristinare un tutto-è-permesso. Un’operazione la cui energia è attinta dalla no-wave, germe del punk di cui Powell sposa l’attitudine.[/column]
“I think it was more about what post-punk and no wave stood for as ideas that was interesting to me. This kind of determination to rub up against what was happening, and to change things, and to provoke.” – Powell (via)
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[column size=”2/3″ center=”yes”]Nel 2015, la moderna missione no-wave di Powell è approdata su XL, il gigante indie con il quale Powell ha rilasciato due singoli: Sylvester Stallone/Smut e Insomniac/Should’ve Been A Drummer. Il primo, con il quale Powell è andato a calcare il solco tracciato da Club Music, è un saltellante trip di acida abrasività il cui overload neurologico è ben rappresentato dall’isterico videoclip di Travor Jackson di Sylvester Stallone, il quale propone diversi riferimenti cinematografici, da Scanners ad Arancia Meccanica. Il secondo, invece, è riuscito a trascendere i meriti musicali, destando grande attenzione per la bagarre che ha accompagnato l’uscita.[/column]
[column size=”2/3″ center=”yes”]Mentre Should’ve Been A Drummer contiene un estratto di Alan Vega, Insomniac possiede un sample di L Dopa dei Big Black, uno dei progetti più radicali di Steve Albini, che per l’autorizzazione all’uso di tale campione è stato contattato via mail direttamente dall’artista. Al momento della risposta, Albini è andato ben oltre l’approvazione e ha espresso attraverso una lunga perifrasi il suo più completo ripudio per la musica ballabile in toto (“Odio la club culture tanto quanto odio tutto ciò che c’è al mondo”), confidando a Powell come lui sia “un nemico del posto da cui proviene”. A questo punto non è mancata la risposta di Powell che, col suo fiuto da pubblicitario, ha chiesto al celebre produttore se potesse usare il loro scambio epistolare come spot. Una richiesta alla quale Albini ha controbattuto con un lapidario “Non mi interessa”.[/column]
[column size=”2/3″ center=”yes”]Alla fine la mail di Albini è finita su un enorme billboard pubblicitario, catapultando Powell al centro dei radar mediatici. La reazione ha creato un indissolubile dualismo, con i monisti di Albini intenti ad affiancarlo nella sua crociata contro la dance, e i restanti ad etichettarlo come un vecchio brontolone. Certo, non bisogna dimenticare il contesto nel quale sono affiorate queste parole, ovvero una lettera privata diventata pubblica solo in seguito, ma la boriosità del celebre produttore ha sicuramente fatto trasparire una certa miopia. Un’invettiva senza distinzioni di sorta, frutto di un’atavica delusione lasciata a macerare (“Quando quella scena musicale e quelle persone [White Noise, Xenakis, Suicide, Kraftwerk e le ultime cose dei Cabaret Voltaire, SPK e DAF] sono state cooptate dalla musica dance mi sono sentito come se avessi perso una guerra”) e celante una visione segregazionista tra elettronica ballabile e non, che trascura la possibilità da parte di Powell di utilizzare la sua influenza per sovvertire un ambiente come quello della club-culture. Un reazionarismo che non tiene conto della mentalità sbrigliata di Powell, caratteristica che lo accomuna agli artisti del cenacolo artistico di cui è boss, la Diagonal. Un ricettacolo di suoni di ogni natura che ha vissuto un’annata da protagonista grazie a misteriose produzioni, solide conferme e graditissime new entry. Tutto questo nonostante che il proprio deus ex machina abbia rilasciato solo per XL.[/column]
“We didn’t release a record by Oscar in 2015. No one noticed. Thanks everyone – what a year!” — Jaime Williams, co-fondatore di Diagonal (via)
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[column size=”2/3″ center=”yes”]Nel frattempo, al di là del caso Albini, Powell continuava a fare terra bruciata dei dancefloor di tutto il mondo. Senza dimenticare quelli italiani, assediati durante tutto l’arco dell’anno — dalle realtà clubbing come Oltre, Morse, Astoria Ocùlta e S/VN/ ai festival. È infatti un memento vivido per chi vi scrive l’incendiaria esibizione di Powell nella stipata e rovente Sala Gialla del Club To Club. Così come la collaborazione sui generis con un altro celebre decostruzionista della club music, Lorenzo Senni, inaugurata quest’anno all’Unsound. Un sodalizio tenuto nascosto fino a quando i due non si sono presentati sul palco, che ha visto l’incontro/scontro tra il moto infinito di arpeggi del producer italiano e la techno meticcia del nostro.
Tutti momenti salienti di un anno che conferma Powell come un talento genuino, che dal sottosuolo britannico ha finalmente raggiunto la consacrazione; come owner di un’etichetta di riferimento e — perché no? — come brillante pubblicitario.[/column]
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