[column size=”2/3″ center=”yes”]È la primavera del 2014. David Bowie ha 67 anni.
Un’amica gli ha suggerito di andare in un locale, il 55 Bar. La serata prevede il quartetto capitanato dal sassofonista Donny McCaslin, più volte nominato ai Grammy Awards. È proprio lui che la sua amica Maria Schneider, compositrice e musicista, gli ha detto di tenere d’occhio. Ci ho collaborato più volte – deve aver detto – secondo me ti garbano codesti musici. David prende un tavolo vicino al palco, si gode il concerto e senza parlare a nessuno torna a casa.
Dieci giorni dopo manda una mail a McCaslin e al suo batterista per coinvolgerli nel pezzo Sue (or In a Season of Crime). C’è anche Maria Schneider. Le cose funzionano bene. Il pezzo esce a fine novembre come inedito per la raccolta Nothing Has Changed. Sue è un brano obliquo, con batteria in controtempo, fiati dissonanti, erede ideale di Hallo, Spaceboy e I’m Deranged, figlio legittimo di 1. Outside, disco schizofrenico e bellissimo del 1995, connotato da una fortissima impronta elettronica sporca alla Young Gods. Credo sia ripartito tutto da lì, quasi a voler riprendere una trama iniziata tempo prima: in effetti 1. Outside era stato concepito come primo capitolo di una storia e, modestamente, di storie a capitoli David un po’ se ne intende.
Passano mesi. Bowie compone del materiale nuovo. Richiama McCaslin – e questa volta vuole tutto il suo gruppo per lavorare sui pezzi che ha scritto. A Gennaio 2015, David Bowie, splendido 68enne, inizia registrare il suo ventottesimo disco. E che disco. Blackstar è un riassunto perfetto di quello che il divino duca nostro è stato, è e sarà in futuro. Un disco che fa sembrare di colpo giurassica un sacco di musica uscita negli ultimi anni. Elegante come solo un duca sa essere, con uno sguardo sofferto, lucidissimo, magistrale.
Dicevamo prima: storie a capitoli. Nel bellissimo video di Blackstar, fa capolino il mai dimenticato Major Tom e David diventa un predicatore bendato, un moderno Tiresia dinoccolato. Un personaggio che ritorna nel videoclip (claustrofobico nel formato 1:1 di paternità ormai dolaniana) di Lazarus, brano intitolato come il musical curato da Bowie stesso e in scena a New York in questi giorni.[/column]
[spacer]
[column size=”2/3″ center=”yes”]Blackstar e Lazarus sono senza dubbio gli highlight del disco, un po’ per la lunghezza importante, un po’ per la bellezza compositiva. Blackstar appare divisa a metà; la prima parte nervosa e arabeggiante si stempera gloriosamente in una crema melodica ispiratissima dal piglio quasi funk per poi rinchiudersi cupa, quasi come un ammonimento; Lazarus lavora invece sulla ripetizione, su un lentissimo climax e sullo sviluppo di una linea di basso super-gummy – in odor di Cure – e si sfilaccia in tanti sontuosissimi strati di fiati. E’ la meraviglia: in meno di 17 minuti David ci mette tutti, prendendo in prestito un’espressione francese, nel suo taschino. Potremmo fermarci qui, alzare le mani e firmare la nostra resa – invece c’è altro.
C’è – e la conosciamo già – Sue, a quadrare il cerchio sperimentale di questo Blackstar. C’è la cavalcata di ‘Tis a Pity She Was a Whore, già disponibile nell’edizione limitata di Sue. Due parole su questo brano: mio dio. Qui c’è tutto, ragazzi: c’è il suono delle big-band jazz, ci sono i Radiohead di Kid A/Amnesiac, c’è il drumming isterico alla Liebezeit, ci sono i synth sognanti della trilogia berlinese, c’è un sax che dire incredibile è dire poco (McCaslin, hai fatto l’assolo della vita, lo sai?) ma soprattutto c’è LUI. C’è questa voce sorniona da camaleonte, da attore consumato, da Pierrot. C’è tutto in questa voce capace davvero di tutto.
Non si finisce qui. Perché David, non pago, infila perle eclatanti una dietro l’altra. C’è Girl Loves Me che è un saggio esemplare di trasformismo vocale – registri alti, cori sepolcrali alla Warszawa, e parole quasi onomatopeiche, rubate allo slang Nadsat di A Clockwork Orange e al Polari, oscurissimo jargon inglese, cantate con un tono quasi da ragazzina. Abbiamo la classe smisurata di Dollar Days, forse il brano più “convenzionale” del lotto: produzione palesemente viscontiana con una coda crescente e coinvolgente di sax e di chitarra elettrica a perdersi nel classico brano finale bowiano (David ha un modo inconfondibilmente sublime di annunciarci la prossimità del capolinea), I Can’t Give Everything Away. Un brano che ricorda le bellissime melodie delle finali The Dreamer (da Hours), Heathen (dall’omonimo disco) e Strangers When We Meet (da 1. Outside). Una canzone enorme per testo, pathos – ovviamente misurato, stiamo sempre parlando di un signore inglese – della voce, per aperture armoniche. Non posso rivelare tutto, canta Bowie. No, David, non vogliamo sapere qual è il tuo segreto. Tienilo stretto come il più grande degli incantesimi.
Oggi hai 69 anni e non sei mai stato così giovane. Dimmi tu se questa non è magia.[/column][spacer][note note_color=”#ffffff” text_color=”#000000″ radius=”0″][yikes-mailchimp form=”1″ title=”1″ submit=”Submit”][/note]