Una volta. Una volta mi fu detto: “Questa musica è bellissima. La vorrei sentire in qualsiasi momento, come in filodiffusione”. Quella volta stavamo ascoltando i Tortoise.
Potremmo saltare le presentazioni in casi come questi e dire semplicemente: “Ah beh, wow.” Si potrebbero conservare parole e serbare un silenzio quasi religioso. Perché sono pochi i nomi che, a distanza di tempo, riescono a creare un alone di fascino e di reverenza – e i Tortoise, Chicago, 26esimo anno di attività, sono uno di quelli.
È possibile parlare di loro senza citare quella parola? Sì, avete capito quale: p***-***k. Più che portare tutte le attenzioni su un termine ombrello che ha contenuto tutto e il contrario di tutto, preferisco assimilare i Tortoise al discorso portato avanti dai concittadini Jim O’ Rourke e Gastr Del Sol. Sperimentazione in bilico tra jazz suonato quasi come scherno all’accademia, elettronica sonnacchiosa e melodie pop – sì, pop, come solo i Can sono riusciti ad esserlo. I Tortoise sono tutto questo: scherzo e perseveranza, spontaneità ed eleganza del gesto atletico. Sono quel goal di tacco fatto col sorriso sornione e quasi beffardo di chi sa che la meraviglia non può che nascere improvvisa – eppure meditata.
Ed è questa la meraviglia che dovrebbe riverberarsi in ogni angolo in cui l’uomo si è insediato. In posti neutri e artificiali come i quartier generali di Gattaca, spazi senza rapporti o relazioni con l’esterno o con luoghi vicini. E’ in questi luoghi (o non-luoghi, come direbbe l’antropologo francese Marc Augé) che dovrebbe svilupparsi un sistema di filodiffusione che trasmette, 24 ore su 24, musica come i Tortoise. Musica capace di riempire, scaldare o quindi commentare dei luoghi-contenitori che creano un microclima umano. Credo sia questo il cuore della musica ambient: una natura improvvisata e contingente, anima bianca che si posa sulle superfici lisce di centri commerciali, uffici, stazioni e stanzoni, anima solitaria che tinge di rosso le gote di chi, nelle sale d’attesa, fa tremendamente finta di fare qualcosa.
Ma allora è proprio vero: c’è anche spazio per l’amore in questo bianco, bianchissimo spazio.