Mi sono messa a pensare alle cose che fanno in su e in giù, quelle che oscillano e hanno il mal di mare.
Il contagiri dell’auto, l’ago della bilancia, gli equalizzatori quando fanno i grattacieli, anche quelle giostre odiosissime che ti schizzano in alto e poi ti lasciano nel limbo del sali e scendi con i vuoti d’aria e tu chiudi gli occhi fortissimo e ti maledici.
Raise dei Brothers in Law mi fa così: una spinta forte come un’esplosione.
Mi apre completamente i polmoni già dal primo brano, una botta di romanticismo che mi tiene lontana dal pavimento e non ancora sotto al soffitto. Un centro immaginario tra il sopra e il sotto.
Giusto il tempo di oscillare un po’, tremare per riverberi e delay, guardarmi le punte dei piedi che si distendono, e poi ecco che riparte una spinta ancora più forte che mi prende ai fianchi e mi porta un gradino, tre, quattro, più su.
Ho paura a guardare di sotto e allora cerco un punto fisso che mi fissi l’equilibrio nonostante la sospensione: una sorta di baricentro dello sguardo da cercare in un’atmosfera impalpabile.
Un’impresa difficile, dirai.
Invece è qui che ti sbagli perché Raise è un po’ come uno di quei capitoli di Monument Valley in cui la principessa Ida, insidiata dai misteriosi corvi neri, fa su e giù per scale e colori pastello, attraversa illusioni ottiche e percorre linee prospettiche apparentemente impossibili e poi, di colpo, trova una via di fuga non troppo lontana dai suoi occhi.
Ecco, alla fine di quest’album dei Brothers in Law io mi sento quasi come la principessa Ida al capitolo IX – La discesa in cui Nessuno è rimasto a perdonarci – e precisamente in quel momento in cui il mare le fa spazio, le scale tornano visibili e il castello smette di tremare.