Mattia Del Moro riparte da Delta Club. Dall’uscita di Landscapes con il nome Brown and the Leaves sono passati sei anni, nei quali il musicista friulano ha cambiato città e sperimentato nuovi lati della propria musica, fino alla scelta drastica di abbandonare il moniker precedente e intraprendere un nuovo progetto.
L’esordio come Delta Club – l’EP Fortitude – uscirà il prossimo 18 marzo. Nel frattempo, per cominciare a familiarizzarci, DLSO vi presenta in anteprima un video live session di Comfort, opener dell’EP.
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Ne abbiamo approfittato per fare qualche domanda a Mattia per scoprire qualcosa in più di questa nuova avventura musicale.
Perché hai scelto di abbandonare Brown and the Leaves, ripartendo da un nuovo nome? Cosa ti porti dietro di quell’esperienza?
Le canzoni di Brown and the Leaves hanno come elemento centrale la voce e la chitarra acustica. Io però non sono mai stato un grande scrittore di testi né un grande cantante quindi fin da subito volevo concentrarmi sulla ricerca sonora più che su quella lirica. Nel fare questo mi rendevo man mano conto che questa centralità di voce e chitarra andava a perdersi mescolandosi con tutto il resto ed inevitabilmente snaturando l’essenza di Brown and the Leaves. Così ho deciso di iniziare un nuovo progetto per sentirmi più libero di sperimentare. B&tL è stata comunque un’esperienza meravigliosa, umana prima di tutto con le persone con cui ho suonato, tutti i cento e passa concerti per l’Italia, le radio, i treni e i van. Musicalmente invece mi porto dietro un grande amore per gli strumenti a corda (poi estesosi ad altri continenti), per la scrittura nuda e cruda di una canzone al di là dei suoni che la vestono e l’emozione di suonare davanti a tanta gente con solo una chitarra e la voce.
Rispetto alla tua precedente esperienza il nuovo progetto ha una veste molto più elettronica. Come hai affrontato questo cambiamento? È un amore musicale che avevi già da tempo?
Mah, in questi ultimi anni ho cercato di scrivere musica con strumenti e modi sempre nuovi per me quindi direi che è stato un processo graduale e naturale. Certo, passare dalla chitarra acustica ai synths e al midi all’inizio è stato lento e faticoso, ma poi tutto si integra e si equilibra. Vedo però che tendo a perdere molto tempo con il computer e ho dovuto costruirmi delle regole ferree altrimenti non ne verrei mai fuori. Invece una cosa bellissima del computer (e più in generale dell’uso di strumenti programmabili) è l’introduzione di un certo “caos controllato” in cui sai più o meno come le singole cose funzionano ma non conosci il risultato quando operano insieme, così ti sorprendi e ti prendi bene. Sì ecco, forse riesco a spiegarlo meglio: è utile spesso a dribblare te stesso e quegli automatismi che hai e di cui magari non ti rendi conto. Per esempio, tutti gli strumenti a corda presenti in Fortitude sono stati campionati e suonati a tastiera, proprio per uscire da quegli accordi che finisco sempre per fare con la chitarra.
Come ti trovi a Londra e in che modo la capitale inglese ha influenzato la tua arte?
Uhu, domandina! La cosa più bella che percepisco qui a Londra dal primo giorno in cui sono arrivato è la sensazione netta che tutto sia possibile. Non è solo un’idea e questo mi dà forza e stimoli. In fondo sono qui da giugno 2014, prima vivevo a Copenhagen. Non è poi molto e posso dire di essere ancora in ambientamento. In più è solo da aprile dell’anno scorso che sono quasi interamente (e nuovamente) concentrato sulla mia musica, perché prima lavoravo come architetto in uno studio di architettura. Da non molto suono anche dal vivo con Mind Enterprises, progetto di Andrea Tirone con un disco appena uscito per Because Music. Insomma, mi sembra di aver cambiato tre vite negl’ultimi tre anni!
Poi Londra rimane un posto per me parecchio duro da vivere, ad iniziare ovviamente dal costo pazzo degli affitti per finire col lamentarsi del tempo e del vivere in questa “monostagione” senza ciclicità. Musicalmente, l’influenza di questa città la sento più sul mestiere del musicista che sul comporre musica vero e proprio. Per l’ispirazione a comporre ho bisogno spesso di uscire e respirare arie diverse dal contesto fisico in cui vivo, mentre sul lato professionale Londra rimane un centro mondiale pazzesco. Sembra poi esserci una fame di musica davvero palpabile, come un po’ la nostra cura italiana al buon cibo.
Mi ha molto incuriosito la tua scelta di usare strumenti musicali africani. Quali sono? È molto apprezzabile secondo me che si fondano a perfezione con la tua proposta musicale: non c’è nulla di forzato, anzi.
L’amore per la musica africana è nato più o meno cinque anni fa. Inizialmente era pura fascinazione per le poliritmie, ma poi mi sono definitivamente innamorato dell’aspetto melodico e degli strumenti a corda principalmente dell’Africa dell’Ovest come la Kora e il ngoni. Poi anche il Balafon e le percussioni ovviamente. Sono tutti presenti nell’EP, solitamente campionati. Mi piace il fatto che pure gli strumenti africani melodici sono in realtà fortemente percussivi; con la loro texture sonora complessa uniscono la percussione e la melodia in una cosa sola.
Sei un architetto. Trovi un nesso tra questa attività e quella musicale?
Altra domandina! È un tema enorme che mi incute un po’ di timore, ma personalmente ti posso dire di sì, trovo un nesso molto forte. Innanzitutto perché non ho studiato composizione musicale, solo dei rudimenti di teoria musicale. Ho però studiato composizione architettonica, e quindi applico dei principi architettonici puramente compositivi quando scrivo musica. Anche l’immaginario Delta Club è volutamente sempre architettonico. Perché quando ascolto musica e chiudo gli occhi quello che sento mi evoca sempre spazi e luoghi, conosciuti e sconosciuti. Non esisterebbe musica senza uno spazio in cui si possa diffondere quindi da architetto non posso che enfatizzare questo connubio.
Cosa puoi spoilerarci del primo video ufficiale che stai per realizzare?
Ooh! Innanzitutto che sono veramente felice di finalmente collaborare con Emanuele Kabu (autore del video, già al lavoro con Little Dragon, The Helio Sequence, Rotorvator e altri). Sono sempre stato un suo fan. Ci siamo ri-trovati qui a Londra e siamo diventati grandi amici. Il brano si ispira ai libri di Bruce Chatwin, in particolare al suo primo testo mai pubblicato da cui prende il nome, The Nomadic Alternative. Insomma un bel viaggione che Kabu ha preso a cuore portandolo ancora più lontano…
Cosa ti manca della tua terra d’origine?
A parte il vino? Mhm, la grandissima varietà di paesaggi, un certo modo di comunicare, le persone che amo di lì, che stanno pure loro altrove. Il cibo non facciamolo nemmeno contare va’..