Alfio Antico è un musicista prezioso. Vissuto in Sicilia come pastore fino ai diciotto anni, giunto alla soglia dei sessanta è ormai il principale interprete della canzone popolare italiana, forte di collaborazioni con innumerevoli artisti (basti citare Il Ballo di San Vito di Vinicio Capossela). Al centro della sua musica il tamburo. Un legame profondo e viscerale con lo strumento, solido come quello che lega il musicista alla sua terra natia.
Antico è uscito a inizio gennaio per la nuova label Origine e rappresenta una nuova, sorprendente direzione nella carriera di Alfio: la musica popolare scarnificata e rimescolata, il dialetto siciliano che incontra l’elettronica più oscura. Un disco che crea un ponte (in)credibile tra la tradizione e un futuro indecifrabile. In odor di psichedelia, con la produzione di Colapesce e Mario Conte.
Abbiamo avuto l’onore di intervistare Alfio Antico e di approfondire il lavoro dietro al disco nonché la sua storia musicale.
“Antico” è un disco che sin dal nome richiama all’ancestrale e al fascino del primitivo, ma che al contempo suona tremendamente contemporaneo. Per certi versi richiama immaginari lontani, futuribili. Possiamo dire che con questo album la musica popolare incontra il futuro?
Mi piace pensarla così, ripeto spesso e volentieri che i termini “popolare” e “Antico” non vogliono significare “passato”, ma si legano alle tradizioni della terra e passeggiano nel presente per vivere il futuro insieme. È un modo per non dimenticarci mai chi siamo e da dove veniamo.
Uno tra gli innumerevoli punti di forza del disco è l’eterogeneità, la cui coerenza è però garantita dalla centralità del suo tamburo. Come riesce a ottenere varietà musicale mediante uno strumento che a taluni – superficialmente – appare troppo “semplice”.
Questa è un’ottima domanda perché è tutta la mia carriera: io ho voluto dare valore e protagonismo ad uno strumento che prima era visto solo come contorno folkloristico, quasi da essere attaccato sui muri come ricordo. Io e lui (il Tamburo) siamo intimi, è questo che ci ha resi forti. È con me da sempre, io sono il tamburo e lui è me.
In che modo si è misurato con la componente elettronica presente in “Antico“?
Io adoro sperimentare cose nuove e la parte di elettronica ha rispettato Alfio, è rimasta organica e intatta. Basti pensare che Mario ha utilizzato principalmente un Folktek, che produce elettricità grazie al corpo umano che fa da conduttore. Eravamo immersi nella natura, gli animali facevano parte dei canti e delle melodie insieme al vento.
Alcune composizioni sono estremamente minimali e connotate da una ripetitività ipnotica. In contrapposizione, i testi mantengono un forte contatto con la descrizione del mondo terreno. L’ho trovato un bilanciamento affascinante.
Lorenzo e Mario hanno voluto togliermi i vestiti classici e barocchi che avevo, con questo siamo riusciti a donare all’album qualcosa di ancora più forte, di umano. Questo bilanciamento di cui parli è qualcosa di potente, di vero.
Com’è stato lavorare con Mario Conte e Lorenzo Urciullo? Quanto è stato determinante il loro apporto?
In ogni mia esperienza è importante il rapporto umano. Io conosco Lorenzo da quando era ragazzo e lui e Mario sono grandi amici, questo ha reso il nostro gruppo di lavoro una grande famiglia. Per me è fondamentale.
Soprattutto dopo questo disco, la definizione di “sciamano” viene spesso utilizzata per descriverla. Ci si ritrova?
(sorride) Uno sciamano con il Tamburo, sì ora lo dicono tutti. D’altronde il Tamburo mi aiutava a scacciare le mie paure di notte, quando da ragazzo pascolavo le pecore nelle montagne. Ha del magico tutto questo.
La natura è onnipresente nei suoi testi. In che modo vi si sente legato?
Io sono un uomo dell’entroterra siracusano, sono nato e cresciuto tra i monti, con gli animali e i suoni della natura. Quelle sono le mie coccole, mi hanno reso l’uomo che sono.
Lei costruisce anche i suoi tamburi. Qual è il rapporto che la lega alle sue creazioni artigianali? Quanto tempo è necessario per costruirne uno?
In Anima ‘Ngignusa canto “Sona fratu mio, fatti sentire”, sono miei fratelli o anche dei figli. Il tempo necessario è difficile da dire, anche un mese scarso, poi dipende dai ricami che voglio farci e dalla grandezza del tamburo. L’importante è non andare di fretta.
Quali sono i suoi ricordi legati alla notte in cui Eugenio Bennato la scoprì a Firenze?
Io suonavo in Piazza Della Signoria e radunavo sempre una folta schiera di curiosi. Un giorno si avvicinò Eugenio e mi disse “sai che sei bravo?” e io a lui “pure tu!”. Il resto ormai si conosce.
La Sicilia è una costante della sua opera, a partire dai testi. Tuttavia, da ben 30 anni vive a Ferrara. Come mai ha scelto proprio la città emiliana? Quanto spesso torna nella sua terra natia e in che modo riesce a sentirla ancora “casa”?
Era il 1984, all’epoca lavoravo con Peppe Barra e la madre Concetta. Il tour ci portò al Teatro Comunale di Ferrara, lì lavorava come maschera una certa Rita, ora mia moglie e madre di mio figlio. Mi sono trasferito a Ferrara per amore.
In Sicilia torno sempre, alla fine dei conti è come se ci vivessi, vado per concentrarmi e per non stare mai lontano dai miei posti dell’anima.
Come intende promuovere un album così diverso e coraggioso rispetto alle sue precedenti esperienze musicali?
Come ho fatto sempre: suonando.
In che modo crede che la musica popolare italiana possa evolversi?
Scollandosi di dosso tutti i cliché, non deve aver paura di mescolarsi con altre realtà, sennò resta vincolata al folklore da cartolina.