La poesia non è nient’altro che la verità: è tutte quelle cose che vedi. È tutte quelle cose che vuoi vedere.
Questa è la poesia-non poesia di Morning Tea. Nelle vostre orecchie, sotto ai vostri occhi. Traccia per traccia.
YOUR HAND IN MINE
Your hand in mine è uno di quei pezzi che si scrivono da soli, una specie di sfogo, pieno di emotività incontrollabile. Non sapevo esattamente cosa dire, di cosa parlare, sapevo solo di aver bisogno di raccontare quel momento di ipersensibilità a cui non riuscivo a dare un nome. E così ho scritto quello che provavo, ho scritto delle scappatoie che non funzionano, delle scuse che ci si racconta e in cui si trova rifugio, delle nostre prigioni interiori. “Stammi vicino, dimmi che tutto questo finirà e saremo liberi, mentimi ancora”. Mi sembrava perfetta come traccia d’apertura, sicuramente spiazzante per chiunque avesse ascoltato il mio primo disco.
NOTHING BUT THE TRUTH
Non voler deludere le aspettative delle persone a cui si vuol bene al punto da sentirsi in colpa con se stessi, al punto da non volersi guardare allo specchio. L’amore, quello che ci sfianca e ci rende ciechi, che in definitiva genera dolore. Un ossimoro. Questa è Nothing but the truth, un pezzo ispirato agli ultimi Arab Strap ma anche ad artisti contemporanei come Shlohmo. Ho sempre pensato che fosse “il singolo” dell’album, il pezzo più trasversale, capace di mettere d’accordo un po’ tutti. Rimane tuttora uno dei miei preferiti.
THE LACK THAT I FEEL
‘The lack that I feel’ parla d’amore, quello che ci culla e ci dà sollievo. “La cura” per tutto quello che ci manca. È un pezzo a cui tengo molto e che continua ad emozionarmi ad ogni ascolto. Dopo averlo registrato e mixato l’avevo accantonato, c’era qualcosa nella produzione che non mi convinceva. Poi un pomeriggio ho deciso di riaprire il progetto, l’ho ascoltato una volta e ho capito cosa fare. Il tempo a volte è un elemento fondamentale per la buona riuscita di un brano.
FLORENCE (I Miss Something)
Questo pezzo è nato davvero per caso. Ero a Firenze (può sembrare scontato e didascalico) a visitare dei parenti durante le feste e, come spesso succede in queste occasioni, non avevo assolutamente nulla da fare. Dopo 3 o 4 ore a giocherellare con un pianoforte scordato ho buttato giù la parte di piano, la linea vocale e le parole. Volevo che il pezzo suonasse come un incontro tra gli Spiritualized di Ladies And Gentlemen We Are Floating In Space e i Mogwai di Rock Action. Tornato a Milano non ho dovuto far altro che rispolverare la chitarra elettrica ed accendere il microfono.
10 PAST 8
Dire che una canzone parla d’amore senza dire come lo fa, è riduttivo. Se ne può parlare in tanti modi, tutti diversi, dicendo comunque la verità. 10 Past 8 racconta del bisogno di avere qualcuno al proprio fianco e di come si tenda a idealizzare questa persona; parla di rapporti calpestati e fatti in mille pezzi, delle bugie che ci si racconta per dare un senso alle cose. Parla d’amore? Forse sì, del resto come direbbe Carver, “di cosa parliamo quando parliamo d’amore”? Ho registrato due versioni di questo pezzo prima di approdare a quella finale. La prima era una versione acustica molto prodotta, diverse chitarre e tastiere, un suono pieno, forse troppo saturo. Anche in questo caso il tempo è stato un elemento fondamentale per la buona riuscita del brano. Mesi dopo la prima prova, ho registrato una versione più elettronica che tuttavia mi sembrava poco convincente. Solo a quel punto ho capito: avrei dovuto ripartire dall’arrangiamento della chitarra. Finalmente sapevo cosa fare e come farlo ed è così che la canzone ha trovato la sua forma definitiva.
LOVE THE GAME
Love the game è il primo pezzo che ho registrato per questo album. A risentirlo un po’ me ne accorgo. In quel periodo praticamente ascoltavo solo due dischi: Perils from the sea di Sun Kil Moon & Jimmy LaValle ed Everyday Robots di Damon Albarn. Love the game ne ha risentito un sacco nella produzione. Adoro il piano elettrico costante ed ovattato, i layer di tastiera, i rumori campionati e riorganizzati in accompagnamento ritmico. È stato l’apripista a livello creativo per questo nuovo lavoro.
Il testo parla di una separazione, una di quelle che sembrava essere già nell’aria come un finale preannunciato che sarebbe stato meglio evitare… se non fosse che ci piace troppo giocare (“It’s a blow that we could dodge, but we really love the game”).
WHAT D’YOU WANT ME TO SAY
Pezzo fortemente ispirato a I see a darkness di Bonnie Prince Billy, è una delle canzoni più tristi che abbia mai scritto. Faccio quasi fatica a parlarne. Il brano ruota intorno ad una serie di domande che rivolgo a me stesso: “Che ci faccio qui? qual è il motivo della mia presenza? qual è il significato di tutto questo?”. È un pezzo abbastanza vecchio, l’avevo già scritto al tempo di Nobody Gets a Reprieve, ma come ormai sembra evidente, ci è voluto tempo prima che l’assimilassi.
NO POETRY IN IT
No poetry in it è un pezzo che risale a molto tempo fa, quando ancora suonavo nei Motel 20099. Avevo chiesto a un amico di registrare la parte di piano, in modo da poterla riascoltare e sviluppare poi, come spesso succede, il pezzo era finito nel dimenticatoio. Una volta iniziate le registrazioni del nuovo album, ho deciso di riprendere in mano quella vecchia idea per cercare di farne una canzone vera e propria. Dopo aver scritto lo special ed il testo, ho preso la vecchia take e l’ho tagliata più o meno a metà, dove sono andato poi a inserire la parte appena composta. L’aggiunta di un paio di synth ha completato l’opera. Nel testo racconto della tendenza umana a cercare un disegno superiore anche nelle cose più banali, una sorta di finalità o motivazione profonda, impenetrabile. La “poesia”, in senso lato. Tuttavia questa poesia non c’è, non esiste, la realtà è di per sé sterile e siamo noi che con la nostra soggettività, sensibilità e cultura le diamo un senso. Ognuno di noi ha una visione filtrata dal proprio vissuto; ognuno di noi aggiunge alla realtà la poesia, quel sentimento necessario per dare un senso alla nostra vita. Dobbiamo credere in qualcosa, non è importante che quel qualcosa esista per davvero.
SAD SONG
Sad Song è un pezzo acustico molto semplice e istintivo, ispirato sia nella scrittura che nella produzione all’Elliott Smith di Either/Or. Chitarre acustiche, voci doppiate e cori sussurrati creano il paesaggio sonoro adatto per parlare di una storia finita a malincuore, seppur con una certa dose d’accettazione e consapevolezza del suo valore. “È stato meglio lasciarci che non esserci mai incontrati” cantava De André in Giugno ’73, questo è esattamente ciò che sentivo e volevo esprimere anch’io.
LETTER TO A FRIEND
Amo suonare questa canzone dal vivo, la trovo essenziale ed efficace al tempo stesso. In fase di registrazione ho cercato di conservare l’immediatezza tipica del live, una chitarra acustica, la voce principale e poco altro. Ancora una volta sono partito da una versione abbastanza prodotta, gonfia di suoni, che ho poi snellito sempre più, fino ad arrivare alla versione finale. In questa “lettera” racconto di un’amicizia finita, ormai irrecuperabile; parlo del rimorso e della stupidità, dei sentimenti non dichiarati e delle parole non dette. “Now you left for good, I’m writing what I should have told you when the spring was still in bloom”.
WHERE THE RIVER MEETS THE SEA
Where the river meets the sea è un pezzo ispirato alla colonna sonora di Twin Peaks e a Motion Picture Soundtrack, un brano dei Radiohead contenuto in Kid A. Partendo dalla linea melodica, scritta diversi anni fa da Marco Colombo (Motel 20009), ho sviluppato la canzone in due sezioni ben definite. Un’orchestra di sintetizzatori in crescendo, la tensione che via via aumenta e l’inevitabile risoluzione in maggiore a placare gli animi; questi gli elementi scelti per dar vita a un’introduzione cupa e dilatata. Nella seconda parte interviene la voce che accompagna il brano all’acme e infine alla chiusura. A far da collante, il materiale tematico dell’introduzione che si ripropone incessante anche nello svolgimento del brano. Il testo a tratti ricorda una preghiera ma è più un’immagine che una storia, è l’istantanea di un ragazzo che tende la mano a una ragazza, “c’è un posto che dobbiamo vedere” dice, “preparati”. Questo è sicuramente il brano del disco che ha richiesto più lavoro, sia in fase di scrittura che in fase di produzione; era la prima volta che mixavo così tante tracce tutte insieme e riuscire a venirne a capo è stata una delle più grandi soddisfazioni che mi sia mai preso.