Con l’uscita di Tombura su Friends of Friends Music (la stessa label di Shlohmo, per intenderci), realizzata insieme all’artista inglese Mina, Lorenzo_BITW si è fatto un nome (e qualche amico clubber) in Inghilterra, guadagnandosi un posto di tutto rispetto nel panorama dance inglese. Da poco rientrato in Italia, abbiamo deciso di fare due chiacchiere con lui, prima che la sua agenda si faccia troppo fitta o salga sul prossimo volo per Londra.
Quando incontro Lorenzo Butintheweekend, al secolo Lorenzo Calpini, classe 88, romano della Vatican City– come campeggia sulla sua pagina ufficiale di Soundcloud– capisco cosa ha di tanto speciale: non ha nulla di volutamente speciale. Perciò evito di sprecare la mia prima domanda chiedendogli del suo meraviglioso alias: lo so già. Tranne nei weekend, appunto, Lorenzo è quanto di più lontano ci possa essere dallo stereotipo del dj 2.0: niente piercing né strani amuleti appesi al collo, nessun tatuaggio né altro segno (in)distintivo, non ostenta alcuno stile trasandato, non veste rigorosamente di nero e, di certo, non è un hipster.
Lorenzo è autentico –effortless direbbe lui– e professionale, un purista del genere che non ha perso tempo a creare alcun personaggio. Il suo stile made in UK spazia tra le sonorità UK funky, house, UK garage e groove, proseguendo sulla scia della weird e bass music. Al termine dei due anni trascorsi nel Regno Unito fra Leeds e Londra e di una residence al Rolling Stock, Lorenzo, stanco della pioggia e degli inglesi, è di nuovo in Italia e ci rivela qualcosa sui suoi ambiziosi progetti per il futuro.
Ciao Lorenzo, iniziamo dalla fine: che effetto ti fa tornare a casa dopo tanto tempo trascorso all’estero? Tu sei romano, hai visto questa città alternare tanti volti, trovi che il clubbing romano si sia in qualche modo evoluto durante i tuoi mesi di assenza?
Direi che sono contento, mi è mancata mamma. E papà!
A parte gli scherzi, il clubbing romano, in questo senso, ne ha vista di acqua passare sotto i ponti. Direi che oggi non è peggio di come è stato in passato, abbiamo toccato il fondo tante volte – ricordo quando è venuto Avicii – e non siamo ancora pienamente risaliti. Nonostante molti club storici, dove si è fatta dell’ottima musica live per tanto tempo, abbiamo chiuso (il Rialto su tutti…anche se apre, poco, ma apre), sono resistite alcune, secondo me importanti, realtà musicali che hanno dato speranza a quelli come me, spingendo un’idea di clubbing un po’ più “europea”, investendo sui nuovi talenti e cercando, piano piano, di radicare il concetto di festival anche qui da noi.
Puoi farmi un esempio?
Sicuramente oggi, a Roma, L-ektrika e Spring Attitude rappresentano due realtà consolidate e apprezzate da tutti per il livello degli artisti invitati. Io ritengo che ai tempi siano stati invece coraggiosi, non c’era nulla di simile in giro, le line up erano tutte uguali ovunque, se volevi qualcosa di nuovo e più “ricercato”, andare a sentire gente che non conoscevi, per poi poterti documentare sul loro conto… allora no, non c’era nulla del genere.
Cosa ti ha spinto ad andare a Londra la prima volta? Credevi che avere successo come dj e produttore all’estero fosse più facile che in Italia? Alla luce dei fatti, direi che ci hai visto giusto…
Ora come ora, la maggior parte delle persone che sono interessate alla mia musica sta lì, mi chiamano per suonare, per dei feauturing, per produrre nuova roba. Per me lì c’è lavoro, quindi sono spinto a tornarci ogni volta che qui le cose non si mettono bene!
La prima volta che sono partito, avevo vinto una borsa di studio per Leeds, perciò avevo un motivo in più per andare. All’inizio non è stato facile, non conoscevo quasi nessuno ed entrare “nel giro” non è semplice. Ho avuto parecchi up and down: non parlavo nemmeno bene la lingua e mi prendevano in giro per la pronuncia! Per un primo periodo sono stato più che altro osservatore, rubavo con gli occhi ovunque andassi, volevo capire come giravano le cose. La realtà del clubbing inglese è totalmente diversa da quella italiana: intanto c’è la fila fuori dai locali, sempre, ogni sera. La gente si organizza e compra in massa i biglietti per andare a sentire quel concerto o quell’artista, le persone fanno subito “gruppo” intorno al club in cui si identificano – perché lì ogni locale ha un’anima sua diciamo – e immediatamente lo supportano e, così facendo, lo promuovono (un po’ come succedeva con la musica rock e i festival dei 60’ e 70’). In Italia tutto questo non succede..o comunque è molto più raro. Non c’è club culture e fai sempre fatica a trovare qualcuno che ti segua agli eventi o che spenda soldi per andare a sentire buona musica, qualunque essa sia.
Perciò, mi sembra di capire che in un primo momento sei andato lì come ascoltatore più che come dj o producer. Sbaglio?
Assolutamente sì, io nasco appassionato di musica prima di essere dj o qualunque altra cosa, poi la musica mi piace metterla e vedere la gente divertirsi, ma non ho mai smesso di ascoltarla o di essere fan!
Oggi che tutto (o quasi) è soggetto a sperimentazione e ad eterni rimaneggiamenti, i confini tra generi musicali sono sempre più indecifrabili. Come definiresti il tuo genere in poche parole? Musicalmente parlando, ti sei formato perlopiù in Inghilterra, credi che questo influisca sul tuo modo di fare musica e lo renda meno “italiano”?
Sono cresciuto ascoltando la radio inglese, le sonorità UK funky e UK garage le ho in testa da molto prima che iniziassi a mettere i dischi; con la mia musica cerco di riprodurle al meglio, mixandole anche con l’elettronica e la dance.
Il mio è uno stile po’ ibrido che non si identifica completamente in nessuno dei filoni “tradizionali” della musica elettronica. Il mio modo di fare musica è fortemente influenzato dal sound inglese ed è lì che, infatti, sta avendo maggior successo. Ma questo, ci tengo a specificarlo, è semplicemente perché in Inghilterra non hanno avuto bisogno di mettere un’etichetta al mio genere, l’hanno solo suonato, gli hanno dato spazio ed hanno lasciato che la gente lo apprezzasse per quello che era, senza necessità di ricondurlo ad una corrente musicale o di inquadrarlo in un genere. Il mio genere è prevalentemente “da club”, fatto per la pista insomma: mi diverto a fare roba ballabile, che posso usare sia io che altri per i dj set. Credo ci sia una linea molto sottile tra il dj che mette i dischi di un altro rendendogli omaggio e quello “che ruba la traccia”. La maggior parte dei dj non ama che i suoi pezzi vengano riprodotti da altri..specialmente quando sei emergente. In realtà, se sei intelligente, capisci che è la normale evoluzione del tuo percorso da dj e produttore. Io mi immagino un ragazzetto inglese che suona la mia roba e fa ballare la gente, ecco questo è il senso.
Il tuo esordio con Mina ti ha portato fortuna e riconoscimenti, segnando un punto di svolta nella tua carriera professionale: ci spieghi come nasce Tombura?
Mina abitava a Leeds e organizzava feste a casa di amici e conoscenti. Una sera mi è capitato di suonare ad una sua festa ed è lì che è nata l’idea di fare qualcosa insieme. Un giorno mi ha mandato la melodia di Tombura ed ho cominciato a lavorare sul pezzo. Per il titolo, cercavamo un nome che non fosse esclusivamente inglese ma che rispecchiasse anche un po’ il lato “esotico” della traccia, perciò Mina si è messa a cercare sul dizionario italiano-inglese e, sbagliando, ha pronunciato “tomburo”! Da lì, l’idea del titolo.
Che significa fare il dj oggi, che artisti lo sono un po’ tutti, e che piattaforme come Soundcloud possono far sentire ognuno di noi eroe per un giorno?
Essere dj oggi è difficile, su internet di musica ce n’è tanta e tanta di qualità. Il livello di competizione è molto alto e non è facile distinguersi; magari trovi gente con 200 followers su Soundcloud che però carica dei pezzi pazzeschi e allora da lì è un attimo ad essere notati da quello giusto ed a fare il salto da internet alla pista. Che poi, è quello che hanno cercato di fare con me in Inghilterra: non sono sicuramente un dj affermato, però comincio ad avere il mio seguito e ad essere chiamato per suonare – che poi è il senso di tutto – staccandomi un po’ dalla fama “virtuale”.
In ogni caso, Soundcloud è la base, si parte da lì, poi viene tutto il resto. Io in realtà vado molto forte su Twitter! Continuo a pensare che la mia musica su internet sia limitata: addirittura vedevo gente a Londra che si sentiva il pezzo sul cellulare, senza casse né niente! E’ ovvio che la riproduzione e la qualità del pezzo così ne soffrono. E’ lì che mi rendo conto che la mia musica ha senso nei locali, spinta dalle casse, con la gente che si diverte e che balla, quella per me è condivisione allo stato puro. Se ci pensi bene, strumenti come Soundcloud sono delle armi a doppio taglio e devi saperli usare a tuo vantaggio senza mai perdere di vista l’obiettivo finale: con una traccia puoi avere culo e diventare fenomeno dei social media, però bisogna mantenere i piedi per terra (2000 followers, se ci riletti, non sono un cazzo!), uscire per capire se poi la gente la sai far muovere nei locali. Se le radio mi mettono a palla tutto il giorno, allora sì, ho raggiunto qualcosa. Soundcloud a parte, credo che sia importante pensare out of the box, mettere la testa fuori di tanto in tanto e capire dove tira la corrente (non solo quella musicale!). Per un dj, è fondamentale continuare ad andare per serate, sentire cosa mettono nei club, captare nuove sonorità, documentarsi ecco.
Va bene Lorenzo, abbiamo finito. Un’ultima domanda: cosa ti aspetti dal prossimo futuro?
Forse ‘sto week end vado a Poggio Mirteto, ché c’è una festa! Per il resto, a marzo tornerò sicuramente in Inghilterra, suonerò a Londra e Glasgow. Ad aprile invece sarò a Praga. In realtà sono tornato per restare, voglio vedere come vanno le cose in Italia prima di decidere dove stabilirmi. Il mio intento primario non è quello di ripartire, ma voglio che la mia musica sia capita! La cosa è lunga da spiegare…ci servirà un’altra intervista.
Prossime date:
11 marzo / Londra – Boko! Boko! at Bedroom Bar
12 marzo / Glasgow – Treat Yourself at Broadcast
1 aprile / Praga – The Work Out at Opposite Club
Intervista di Lorenza Ambrosi.