Nessuno farebbe mai un film su Bargnani.
Non c’è motivo, perché quella di Andrea Bargnani non è né una storia bella, né una storia brutta, o meglio, né una storia troppo bella né una storia troppo brutta per poterci produrre una pellicola.
La sua esistenza da cestista, quantomeno, è stata segnata da un inusitato fenomeno, ossia la rivalutazione di un evento eccellente, che almeno la trasforma in un’esistenza abbastanza rara. Un accadimento straordinario, rutilante, inedito, scaturigine di roboanti schiamazzi mediatici, che con il tempo diventerà quasi un peso, una sorta di maledizione: Andrea Bargnani, italiano, nato a Roma, è il primo europeo ad essere scelto come prima chiamata assoluta in un Draft NBA.
Nessuno farebbe mai un film su Andrea Bargnani.
Se esistesse, però, un film su Andrea Bargnani, questo si aprirebbe con le immagini del Madison Square Garden, a New York, il 28 giugno del 2006, quando l’evento di cui sopra accadde. Il regista sceglierebbe il filmato originale e in sottofondo l’eterno successo di Renato Rascel. Va detto, non sarebbe neppure una scena inedita; qualcuno, anni addietro, ci aveva già pensato, plasmando uno spot tanto nazionalpopolare, quanto romantico e celebrativo. Questo qualcuno si chiama Nike.
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Ripercorrere vicenda per vicenda (“play by play”, direbbero ai tavoli delle partite NBA) la carriera di Bargnani sarebbe una sorta di tortura, verso di lui e verso se stessi. Non perché la sua storia sportiva sia stata chissà quanto bassa, ma perché è stata, casomai, l’epitome della delusione, dell’incompiutezza, dell’evaporizzazione delle grandi aspettative. E le aspettative svaniscono piano piano, lente, mai tutte in un momento e quasi in maniera invisibile, anti-cinematografica. Rappresentarle efficacemente in un film, forse, sarebbe sforzo inane e impresa troppo ardua.
Qualcuno direbbe che la carriera del Mago (soprannome ancestrale del Nostro) sia il simbolo palmare del talento sprecato; personalmente dissento. Bargnani non ha mai avuto talento e le definizioni dei concetti vanno onorate. Il talento è “l’inclinazione naturale di una persona a far bene una certa attività”. Bargnani di talento non ne ha mai avuto tanto. Ha pencolato tra l’esprimere della buona pallacanestro e della orribile pallacanestro, ma non ha mai dimostrato di portarsi appresso un gran bagaglio di naturale predisposizione. Il Mago è una macchina, altro che talento; ogni obbiettivo che ha raggiunto, l’ha raggiunto grazie e soprattutto al proprio lavoro; al proprio minuzioso, ripetitivo, ossessivo e costante allenamento. Ad ogni modo, il novanta percento delle volte in cui Andrea Bargnani ha calpestato un parquet NBA, in quel parquet il Mago era, allo stesso tempo, il giocatore più alto e il tiratore migliore di tutti. Che le vostre competenze in ambito cestistico siano elevate oppure inesistenti, sappiatelo: non è una cosa affatto comune.
Questo fantomatico film, in una delle sue scene, mostrerebbe il tipico allenamento di Bargnani in una palestra del nord America: un elefante che si muove in una cristalleria e che, come sempre, meravigliosamente e miracolosamente, non rompe nulla. Una macchina enorme con una coordinazione impressionante, che ripete costantemente lo stesso abbacinante moto: spinta, rilascio, canestro.
Se i Kraftwerk abbiano disumanizzato l’uomo o umanizzato la macchina rimane un oggetto di discussione; in ogni caso, questo brano del 1978, a detta di chi scrive, sarebbe pertinente al contesto e perfetto per quella scena cinematografia di cui sopra.
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L’inizio a Toronto fa ben sperare, ma col tempo emerge una fastidiosa renitenza nei suoi confronti da parte del pubblico dell’Air Canada Center. Segna, ma non difende. È veloce, ma non ci mette passione. Non va tanto a rimbalzo.
Questo, addizionato al fatto che la squadra non vince, che il ragazzo, effettivamente, non esprime un agonismo sbalorditivo e che la difesa in aiuto lascia un po’ a desiderare, fa passare in secondo piano il fatto che Bargnani – con la dipartita del go-to-guy Chris Bosh – sia tra i primi quindici (se non dieci) marcatori della NBA. Nella Lega ci sarebbe una vagonata di giocatori molto più deboli di lui, ma la fatidica parola bust inizia a circolare lo stesso, perché Bargnani non è uno qualunque: è la prima scelta assoluta del Draft 2006.
È risaputo: se le cose vanno male e tu puoi peggiorarle, perlomeno sarebbe meglio non farlo; Bargnani, inspiegabilmente, lo fa. Durante un riposo forzato – figlio dall’ennesimo infortunio in troppo poco tempo – si rivolge a Gazzetta dello Sport in maniera quantomeno opinabile, dal punto di vista della strategia comunicativa. In verità, è lecito chiedersi se Bargnani abbia mai avuto uno staff che gli curasse l’immagine, ma il discorso è articolato e meriterebbe un pamphlet di almeno un centinaio di pagine.
Se devo cambiare squadra, lo farò: è il mio lavoro
Siamo il team peggiore della Lega
I rimbalzi? Gioco a pallacanestro, mica a “pallarimbalzo”!
Per il direttore sportivo è un “enigma”: tanta potenzialità e scarso rendimento, per non parlare degli infortuni che lo perseguitano. In campo che ruolo deve rivestire, poi? Bargnani è ancora un oggetto non identificato atterrato sul pianeta del basket USA. Quando c’è da divertirsi e da immergersi nel mood statunitense, sembra un pesce fuor d’acqua.
Ebbene sì, sarebbe il momento più malinconico del film e un Vasco del 1979 calzerebbe a pennello, ma, si sa, il pubblico va anche un po’ imboccato; quindi partirebbe semplicemente Carosone, in un exploit di becera prevedibilità. Torna a casa Andrè..che a noi ce piaci come s’è fatto
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La dirigenza alza bandiera bianca. Bargnani è stato un investimento sbagliato e riconoscere gli errori, au fond, è un ammirevole segno di maturità.
L’italiano, alla sua ottava stagione dall’altra parte del “laghetto”, viene scambiato e passa dalla città più vivibile del mondo a quella che non dorme mai. Geograficamente non c’è da lamentarsi, ma dal punto di vista cestistico qualche spettro si materializza all’orizzonte: se i Raptors non erano i più virtuosi in termini di organizzazione, i New York Kincks non sono da meno. La squadra del Grande Mela (e del grande Melo) è l’emblema dell’apparenza, il luogo in cui l’obbiettivo sembra essere quello di erigere una copia dell’Empire State Building su dei legnetti da gelato; un posto dove il leader, Carmelo Anthony, non può che essere il più scarso tra i più forti, il più perdente tra quelli che “devono vincere”. Se Toronto non era neanche gli Stati Uniti, la Grande Mela lo è all’ennesima potenza. Strada in salita? Non importa, in un film che si rispetti, alla caduta segue la rinascita.
C’è Bargnani sul sedile di dietro di un taxi giallo. Inquadratura dall’esterno. E’ sera e le luci dei grattacieli si riflettono sul vetro. Il tassista alza la radio. Ora Jay-Z e Alicia Keys coprono i rumori; tutti, anche i fischi di Toronto.
There’s nothing you can’t do,
Now you’re in New York,
these streets will make you feel brand new
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Progressivamente, però, tutti i dubbi e le incertezze vengono in superfice, scalfendo la debole crosta della speranza. Il sistema di gioco non porta con sé i risultati sperati e i Knicks faticano. A dirla tutta Bargnani sembra reagire con un minimo di carattere alle disavventure collettive e personali. In fin dei conti, la sua difesa in situazioni statiche è sopra la media e poi chi l’ha detto che le cose meccaniche, quando fatte da qualcuno che dispone di un’anima, non possano essere oggetto di forte fascino? Nel derby contro i Nets, Bargnani si fa perfino espellere dopo un prolungato trash-talking con il giocatore più odioso della Lega, Kevin Garnett. In quei tre quarti di partita, Bargnani produrrà più testosterone che in tutta la sua intera carriera. Ma non basterà. L’italiano non riesce a far breccia nel cuore dei tifosi newyorkesi e l’establishment inizia a prenderlo di mira continuativamente. Shaquille O’neal lo inserisce sovente nella sua famigerata classifica di orrori settimanali.
Se non sei audace, si sa, la fortuna fatica ad arrivare e se la dea bendata non arriva, prima o poi fa capolino la sfiga. Contro Philadelphia parte in palleggio dalla linea dei tre punti e penetra in area; di fronte si ritrova un avversario mal posizionato, salta per schiacciargli in faccia, ma la caduta è paurosa e rovinosa. Gomito fuori uso e stagione finita. Su You Tube un video riproduce il misfatto con un accompagnamento irridente: I Believe I Can Fly, di R. Kelly.
Il passaggio musicale, per il regista di questo film che non uscirà mai, sarebbe servito su un piatto d’argento (che poi questo film sarebbe una biografia o una presa in giro??), ma, stando alla reputazione che il Mago ha maturato in NBA, la cosa migliore sembra essere quella di tornare indietro di un paio d’anni.
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In America si diffonde la teoria che Bargnani non sia inutile, ma addirittura dannoso. Ogni team in cui il romano ha militato è caduto in un vortice di sconfitte. Scontato sottolineare che ridurre Bargnani e la sconfitta della squadra a semplice causa-effetto sia riduttivo, ottuso e superficiale, ma anche nomi importanti del giornalismo a stelle e strisce iniziano a sostenere questa tesi.
La cronistoria di Bargnani non sarebbe neanche finita qui. Dopo l’infortunio seguirà una mezza-stagione anonima con i Knicks e poi l’arrivo ai Nets (fortunatamente senza più Garnett in squadra!). La città rimane la stessa e il contesto sportivo anche. Phil Jackson (vincitore di undici anelli da coach e attuale presidente dei Knicks) dichiarerà che Bargnani era stato un peso per la squadra, non solo in campo, ma anche fuori.
Ad oggi, Andrea Bargnani è senza una franchigia. Se fosse un cane, sarebbe un esemplare di razza che vaga solitario per la città con il collare ancora addosso. I Nets l’hanno “tagliato”, ossia lo pagano ancora, ma lo stipendio non viene conteggiato ai fini del tetto salariale e lui non è più a disposizione della squadra.
A parte qualche recente larvata ammisione di colpa, Bargnani non è mai stato uno incline al mea culpa. Le ingiustizie capitano un po’ a tutti (chiedete all’unico detentore italiano di un anello NBA), la differenza la fa l’approccio. Ora, alla decima stagione negli Stati Uniti, il ritorno nel Vecchio Continente sembra inevitabile.
È nelle prossime ore, infatti, che si deciderà il futuro di Andrea Bargnani. Se si dovesse prensentare l’offerta di qualche franchigia NBA “decente”, l’italiano vestirà ancora una casacca americana, altrimenti tornerà in terre più vicine alla penisola, in attesa del preolimpico estivo con la Nazionale Italiana, dove, se sarà fisicamente integro, dominerà in moltissime situazioni, come è fisiologico che sia.
Per ora è un corpo estraneo alla Lega; dove si scrive ogni sera un’altra pagina di sport americano, lui è assente, ignorato; nonostante vorrebbe rimanere in quel mondo ancora un po’, il suo destino potrebbe essere come quello dell’incolpevole vestale di Alexander Pope: “dimentica del mondo, dal mondo dimenticata”. Solo un nome in cima ad una lista, insomma, tra gli almanacchi sportivi della terra. Solitamente, quando la storia si scriveva e lui era lì, finiva sempre col ritrovarsi dall’altra parte, la parte di chi subiva o stava a guardare. Ora è semplicemente abbandonato, un personaggio in cerca d’autore in un non-luogo sportivo.
Nessuno farebbe mai un film su Andrea Bargnani e il finale di questo film (che mai si farà) va ben oltre le idee di giusto o sbagliato, di vero o falso. Descrive semplicemente uno stato dell’essere, malinconico come un entusiasmo che va in frantumi, come un’aspettativa che non è diventata mai realtà.
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Illustrazione iniziale: The Ceza.