Lo scorso 5 febbraio è stato pubblicato il quarto disco solista di Salmo, intitolato “Hellvisback”: l’attenzione mediatica che un artista come Salmo riceve in Italia è a dir poco sconfinata, il suo disco però si rivela sofisticato e merita un’analisi molto più attenta che sia in grado di slacciarsi dal semplicismo, dalla superficialità e dai luoghi comuni.
Innanzitutto “Hellvisback” non è propriamente un disco rap: per il sound che lo caratterizza ma anche perché avulso dal modo in cui il rap stesso in Italia viene percepito ed ascoltato e l’intenzione di Salmo era quella di dimostrarlo in modo sottile, ma neanche troppo sottile. Salmo è in grado di mescolare una varietà molto vasta di generi spaziando dall’elettronica, al blues ed al raggae coinvolgendo anche l’utilizzo di chitarra e batteria, quest’ultima anche per mano di Travis Barker. Questo è il primo punto in cui Salmo crea un altro prodotto diverso e sbalorditivo: stupisce un ascoltatore medio di rap italiano ormai imbastardito negli ultimi anni principalmente da due tipi di hip-hop: quello figlio (orfano) del boom-bap anni ’90 il cui stendardo è retto dal Colle der fomento e quello neo-trap che sta lasciando un’enorme impronta nella scena di recente. Ci era già riuscito 5 anni fa grazie alla sua voce grattata spalmata sulla drum ‘n bass che rese celebre “The Island Chainsaw massacre”, stavolta siamo davanti ad un prodotto musicalmente ancora più maturo, completo ed in parte rivoluzionario.
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Da molti punti di vista “Hellvisback” è la più naturale evoluzione che “TICM” potesse conoscere e fondamentalmente l’unica differenza che intercorre tra i due dischi è la stessa che può farci ammettere come tra gli stessi si legga molto facilmente un’evoluzione artistica. All’epoca Salmo aveva il dovere di dimostrare il proprio talento oggi ha quello di legittimare il successo che quel talento gli ha portato e ci è riuscito perfettamente in entrambi i casi. Ha voluto rendere palese tale intenzione già dalla scelta sicuramente non casuale del singolo
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1984 descrive, come tutti sanno, la storia personale di Salmo; all’interno del suo primo disco, invece, il racconto della sua storia era affidato ad un’altra sua traccia molto famosa
Entrambe sono tracce che presentano Salmo ma se la seconda ci è servita per esplorare meandri più sconosciuti e descritti in modo anche più distaccato, la prima risulta estremamente più familiare ed arriva anche a discostarsi dalla sua iniziale tematica per sfociare in un giustificatissimo egotrippin’ che viene raccolto, ad esempio, nella citazione:
“Sapevi che il mio primo disco
ha fatto la storia ma dopo i Sangue misto
ancora scioccato per quanto sangue ho visto
il mio flow vi ha benedetto: il sangue di Cristo”
Ed è qui che prende forma il concept del disco stesso, concept talmente semplice da non essere stato compreso o per lo più apprezzato. Una delle critiche più sempliciste mosse ad “Hellvisback” è l’assenza di tematiche di grande spessore: pur non essendo affatto giusta tale considerazione si può ammettere in tutta franchezza come effettivamente TICM si snodasse in molte più argomentazioni esposte da Maurizio su molteplici aspetti che dividono l’opinione popolare rispetto al più recente album; tuttavia era il concept dell’album a prevedere tale situazione e la non necessariamente ampia ed originale scelta di tematiche è totalmente funzionale alla già citata intenzione di Salmo: dimostrare la sua comunque incondizionata superiorità. La parola più giusta usata a riguardo indubbiamente è stata immunità.
È riuscito, in uno dei suoi più grandi intenti, a dare una giustificazione ed una dimensione seria all’autocelebrazione e tale dimensione si ravvisa ad esempio, oltre che negli episodi già citati anche in “Io sono qui” e “L’alba”.
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Oltretutto fermatevi un attimo ad apprezzare le doti di recitazione del suddetto.
La genialità e l’efficacia di questo intento si concretizzano paradossalmente nell’elemento che più ha subito critiche in Hellvisback: il nosense. Chiunque si è accorto della presenza nell’album di versi slacciati dal resto della canzone o totalmente campati in aria ed in verità è proprio in questa forma di espressività che Salmo finalizza la sua intenzione: “Hai preso lo sciroppo contro il Qatar” non ha significato alcuno però “Posso dirlo, posso farlo”. Anche in tale modo oltretutto si discosta dal vuoto tentativo autocelebrativo del rap italiano e lo fa molto semplicemente prendendolo per il culo, pretesa che Salmo sta avendo sempre più spesso e sta legittimando ad avere per l’impatto ed il ruolo preponderante che ha nella musica italiana: non nel rap italiano, nella musica italiana. Anche per le tematiche in verità “Hellvisback” è piuttosto rivoluzionario: negli ultimi anni l’ascoltatore di rap italiano è stato imbastardito da un tipo di sound trito e ritrito che si accompagnava costantemente alla storiella del ragazzino ormai non più ragazzino che in autobus mentre piove ripensa a quando ha lasciato la sua ragazza ed è malinconico pur sapendo che sì: quella è stata la scelta giusta. L’ultima traccia di “Hellvisback” ovvero “Peyote” riprende benissimo questo discorso e si configura anche come l’unico episodio nel quale l’egotrippin’ di Salmo raggiunge cime talmente vertiginose da scoprire totalmente i suoi intenti: come se la maschera che finora lo avesse rivelato fosse tolta tutto ad un tratto proprio negli ultimi minuti del disco, così da fare in modo che il messaggio fosse talmente palese da non poter essere ignorato.
Non è importante capire se “Hellvisback” sia piaciuto o meno ma è fuori dubbio che se ne sia parlato molto così come è fuori dubbio che sia una boccata d’ossigeno abnorme e che funzioni perfettamente come disco. Ma del resto Salmo l’aveva già detto che “Il principio di chi suona è stare in parallelo alla linea di ciò che funziona”