Evan è il progetto di Gaetano Savio pronto a esordire quest’anno. In occasione del free download del primo singolo del disco, Don’t Quit con remix annesso, abbiamo fatto quattro chiacchiere con lui cercando di capire cosa possa essere jazz oggi.
Nella descrizione dei tuoi profili online si trova spesso la domanda “is that jazz?”. Perché questa domanda descrive il progetto Evan?
Il punto focale di Evan è il desiderio di riuscire a mettere elementi del jazz nella musica contemporanea, quindi senza realmente fare jazz. Non mi interessa il jazzismo in sé ma elementi della cultura musicale del jazz, quali l’improvvisazione e l’uso degli strumenti suonati. Nella musica elettronica e in quasi tutte le produzioni odierne, pure senza un sound elettronico puro, si è perso l’uso dello strumento suonato che io invece credo abbia molta forza. Dell’esperienza del jazz, che io comunque vivo da ascoltatore perché non sono un vero jazzista, mi piace prendere quegli elementi quali l’assolo, l’interplay e soprattutto quella voglia di mischiare le carte. Nell’album di Evan, infatti, ci sono pezzi estremamente eterogenei: da pezzi più anni ’80, altri più house, altri ancora più squisitamente acustici perciò più vicini al jazz. Quindi la domanda “is that jazz?” è una domanda retorica: non lo è perché in effetti non lo facciamo, ma c’è tantissimo di quell’esperienza.
Quindi dal jazz si tratta di portare avanti il discorso dell’ibridazione.
Esattamente. Oggi escono anche dischi jazz che suonano come lavori degli anni ‘50 o ‘60: non è quello che mi interessa. Mi interessa invece quella voglia di mescolare le carte, di mettere insieme più suoni con un patrimonio strumentale forte e una capacità musicale forte, che poi è anche quella dei miei musicisti. In una breve intervista che feci con la Brownswood Records, che pubblicò uno dei nostri pezzi un anno fa, mi chiesero la carriera di quale artista mi ispirò di più e io citai Herbie Hancock, che è uno che è passato da Miles Davis allo scratch: per me questo è jazz.
Nella breve intervista per Brownswood hai citato pure J Dilla. Cosa ti attrae di quel modo di lavorare con i sample?
La mia formazione deve tantissimo all’hip hop. Io nasco come dj, ho fatto una quindicina d’anni di serate hip hop a Napoli. Anche se poi ho fatto studi di musica regolari tra conservatori, l’hip hop mi ha formato. Dilla è uno dei più grandi produttori di hip hop mai esistiti. Usava molto i sample, è vero, però il suo modo di decostruire e ricostruire la musica è molto vicino a quell’idea creativa del jazz che mi interessa. Il risultato sonoro è molto interessante, infatti il suo è un sound che ti viene voglia di suonare anche con gli strumenti. Proprio a questo proposito il secondo singolo promozionale che pubblicheremo avrà come lato b un tributo per il decennale della sua scomparsa.
Anche il video di Don’t Quit è fatto assemblando sketch di creative commons, quindi c’è un filo con il discorso del campionamento. Questo è curioso perché l’album è molto strumentale, ma dall’altra parte rimane l’interesse verso il campionamento. Hai un metodo per comporre?
Venendo dall’hip hop le prime produzioni che ho fatto erano dei beat, perciò il sample per me è stata la prima cellula compositiva. Poi sono andato oltre: ora scrivo proprio, ma non ho mai perso quella idea. Per me partire da un sample o da un accordo o da una melodia è la stessa cosa. Oggi non credo si possa davvero distinguere chi usa i sample e chi no.
Per quanto riguarda le tracce dell’album, molte sono nate da un sample che magari non è rimasto nella stesura finale, oppure da un giro di basso di un altro pezzo che poi ho risuonato. A me piace molto prendere ispirazione da altre produzioni. Don’t Quit invece nasce al piano e, infatti, a parte un piccolo arpeggio di sintetizzatori, è un brano completamente acustico.
La foto che vedo spesso nei tuoi profili, quella con la mano in primo piano, è un tributo allo strumentismo, alla manualità?
Sì certo ma è anche un richiamo a un altro concetto che ritornerà in futuro: l’idea di vedere qualcuno ma di non capire esattamente chi è. Evan sono io ma senza un lavoro musicale di gruppo non esisterebbe. Anche la copertina di Don’t Quit raffigura una cantante con i capelli coperti in una foto mossa. L’idea quindi non è tanto di far vedere la mano, ma di mostrare una sorta di alter ego collettivo: Evan è un dj, è un cantante, un sax… Poi ovviamente il volto del nostro gruppo è la cantante, perché il cantante è sempre percepito come il frontman, la punta dell’iceberg. Ma in realtà non esiste un Evan, certo sarei io nel senso che personalmente ci metto tantissimo, però da solo non potrei fare nulla.
La band sembra giocare un ruolo importante nella realizzazione finale del disco.
Importantissimo, perché tutte le parti libere, assoli ma non solo, sono fatte dai ragazzi insieme a me. Io stesso do loro tantissima libertà. Ci sono anche delle influenze più dirette: per esempio la versione di Plastic Dreams, che è un classico della techno anni ’90, la facevamo spesso dal vivo e la mia idea era di farla diventare una specie di blues, poi alla fine abbiamo trovato insieme questa chiave di lettura che è finita sul disco. Oppure quella versione in 7/8 un poco riarrangiata di On The Sunny Side Of The Street, che era uno dei cavalli di battaglia di Louis Armostrong, è stata fata dal mio bassista che ora ha preso altre vie: una volta me la fece sentire e la proposi per Evan e disse ok. Perciò l’arrangiamento è suo, poi la produzione l’ho fatta io, il beat e come suona è una mia idea. Nel disco c’è tanto dei ragazzi con cui suono.
Quindi c’è largo spazio all’improvvisazione.
Sono molto rigido nelle parti in cui scrivo, nelle parti tematiche, perché ho un’idea precisa, ma, lì dove bisogna seguire un po’ il flusso, i miei strumentisti sono molto più bravi di me.
Mi racconti cosa c’era prima di Evan e come è nato?
L’idea di Evan nasce molti anni fa con il primo gruppo che ho fondato verso la fine degli anni ’90. Si chiamava Santa Avocada e aveva già questa influenza proveniente dal mondo jazz. All’epoca non era ancora nato il cosiddetto nu jazz, invece andava molto un genere definito lounge, un sound ancora legato a colonne sonore, musica centro o sud americana e salsa. Quindi tutto molto più leggero. Con quel progetto partecipammo e vincemmo un concorso per remixare Comincia Adesso dei 99 Posse. Per una serie di problemi legali il pezzo non uscì mai ma per noi fu comunque un bel riscontro e decidemmo di andare avanti. Finì perché la mia controparte musicale decise di cambiare lavoro e quindi rimasi solo, senza gli strumenti per continuare. Per questo decisi di iniziare a studiare musica: proprio per affrancarmi dalla dipendenza assoluta da altri musicisti. Quel progetto continuava a piacermi, ma fui comunque costretto ad accantonarlo perché ero troppo preso dal conservatorio e dal suonare alle serate. Quell’idea è ritornata per caso dopo che mi hanno chiesto di fare musica dal vivo. Quindi ho messo su la band di Evan e quell’occasione ha rimesso in circolo quella voglia che ti dicevo di mettere insieme il musicista e il dj che sono.
Il jazz è sempre stato molto presente nel tuo percorso: è una cosa che sei andato a cercare o con cui sei cresciuto?
Mi sono avvicinato al jazz attraverso l’hip hop, che è un genere che mastica altri generi. Gruppi come Gang Starr o Tribe Called Quest facevano un enorme uso di sample da dischi jazz. Perciò quel tipo di sonorità le ho sempre avute nelle orecchie ma da lì me le sono andata a cercare: non ho vissuto un ambiente musicale jazz. Per quanto sia una musica difficile, diciamo non per tutti, credo che se si riesce a trovare l’artista giusto o il disco giusto per fare leva, allora si fa una crepa nel muro e si può entrare. Quindi in realtà è una musica che io ascolto da molti anni ma che probabilmente senza l’esperienza dell’hip hop non avrei nemmeno avvicinato.
Nel tuo caso, quale artista ha fatto una crepa in quel muro?
Il primo disco jazz che ho comprato, che in realtà non si può nemmeno definire un disco jazz, è stato uno della Verve Records in cui Antonio Carlos Jobim suona al pianoforte le melodie dei suoi brani più storici. Non c’era tantissimo jazz ma mi incuriosì. Da avido acquirente di dischi le etichette sono un riferimento, se si trova l’etichetta giusta si va a cercare subito le altre produzioni. Quindi la Verve, che allora non sapevo nemmeno fosse un’etichetta storica, fu la prima apertura. Ad aprirmi davvero il mondo del jazz è stato From Left To Right di Bill Evans, un disco che comprai quasi al buio. Qui Evans suona il piano elettrico Rhodes, che è uno strumento che io adoro e infatti molto presente anche nel mio disco.
Pensando, invece, all’ibrido tra jazz ed elettronica, quali sono stati i tuoi riferimenti?
Soprattutto la scena del nu jazz, quindi Jazzanova, Herbert, St Germain. In Between di Jazzanova credo che abbia espresso molto bene cosa può succedere anche oggi quando metti insieme jazz e generi attuali. Bodily Functions di Herbert è un bellissimo disco però lui è molto concettuale: crea suoni, campiona da rumori, in quel disco gran parte dei suoni sono fatti con rumori del corpo, per questo il titolo, però ci sono dei pezzi proprio jazz molto belli. The Detroit Experiment è un altro bellissimo disco prodotto da Carl Craig, quindi un produttore techno, che mise in studio dei musicisti a suonare e venne un album molto variegato: alcune tracce sono semplicemente take, altre rimescolate, altre remixate.
Questa scena nu jazz ha avuto degli anni magnifici poi è morta completamente, succube anch’essa della moda attuale che si è estremizzata tantissimo: ora c’è molta tech house, molta EDM, molta dubstep. Si è andato molto in profondità in stili elettronici ma l’ibridazione si è un po’ persa. Forse la drum’n’bass ha tenuto un po’ questo aspetto ma comunque ha perso quell’influenza iniziale col jazz.
È più un discorso di tirare il jazz dentro una musica contemporanea o trovare un ibrido che stia nel mezzo?
Per quanto mi riguarda, cerco una forma di equilibrio, però probabilmente è più fattibile l’altra strada: prendere energia, contenuti, stili dal jazz e metterli dentro alla musica di oggi. Ti faccio il nome di Taylor McFerrin, il figlio di Bobby McFerrrin, che ha fatto un disco dove dentro c’è pure Robert Glasper e Thundercat: anche il suo è un tentativo di mettere insieme più suoni. Mi piace molto, è uno degli ultimi dischi che mi ha influenzato, ma in realtà il disco non suona per nulla jazz: se lo senti ci sono pochissimi riferimenti, però ti rendi conto che l’influenza è enorme. È l’attitudine, la vibrazione giusta: per me l’influenza del jazz sta anche in quali accordi o suoni usi. Se invece di un basso synth usi un contrabbasso immediatamente stai virando verso quel suono lì. Anche dei cliché sonori ti spingono verso quella zona. Allora sono piccoli elementi jazz che funzionano come spezie. Non potrai mai fare un disco jazz con un po’ di elettronica, sarà sempre il contrario. C’è una metafora che ho usato per spiegare Evan altre volte: come quando cucini e per mantecare usi la panna, forse il jazz è quell’elemento che tiene insieme e insaporisce un discorso. Non la colonna ma l’amalgama. Non è invasivo, però è un elemento fondamentale: tutto prende corpo grazie a quello.
Lessi una frase di Herbie Hancock che diceva “quando ti chiedi se ciò che stai ascoltando è jazz, allora è jazz”.
Io conoscevo un’altra frase, che è l’altra faccia della stessa medaglia, che dice che se devi chiedere cosa è il jazz vuol dire che non lo capirai mai, perché è una cosa che devi sentire dentro. Da qua nasce la domanda di cui parlavamo prima “is that jazz?”: non è tanto importante la risposta quanto la domanda in sé. Per me oggi tante cose sono jazz anche se non lo sembrano esattamente. Anche Dilla: il fatto che suonasse i beat senza quantizzarli, senza che la beat machine mettesse a tempo ciò che lui suonava, quella è un’attitudine jazz. È l’elemento umano che ritorna.