ONE.
Vien da sorridere.
Chissà cosa sarà saltato in testa a Sufjan Stevens, compositore e folkwriter di Detroit, la prima volta che ha pensato al 50 States Album Project, il colossale progetto di racconto musicale dei 50 stati americani. L’epica impresa, presto rivelatasi uno stratagemma – ben riuscito, senza dubbio – per attirare l’attenzione della stampa e del pubblico, nasce dopo l’uscita di Michigan, disco datato 2003 e dedicato alle memorie personali di Stevens. La posta in gioco è alta: compiere un tour ideale degli stati americani, quasi come una corsa elettorale alla presidenza. Nello stesso modo in cui i candidati cercano di accaparrarsi più stati, Sufjan vuole coprire intere aree e contee, raccontandone storia e gesta di uomini illustri. Tuttavia le magnifiche sorti del 50 States Album Project culminano e allo stesso tempo collassano rovinosamente nel compimento di Illinois, imponente album pubblicato, non a caso, il 4 Luglio 2005, festa dell’Indipendenza americana.
“Illinois songs had more pageantry, were more challenging, were more epic, were kind of on a grand scale – and I wanted my next record to be something really big, really challenging and exciting and flashy […] I was always interested in setting and geography and everything that I had been writing previously – music or fiction – was about particular people entrenched in an area whose geography and environment shaped who they are”. (Intervista a The Guardian, 2005)
Mappa alla mano, dal Michigan di Sufjan all’Illinois il passo è breve: stati attigui, una storia industriale simile, splendide distese di campi a perdita d’occhio che vanno quasi a cancellare i confini così squadrati sulle carte geografiche. Ci troviamo negli stati del Midwest, il cuore americano pulsante e pacifico di una terra, fisica ma anche simbolica, dove il concetto di “sogno americano” si è realizzato appieno. Secoli di duro lavoro di contadini, fattori, artigiani, di determinazione di operai e inventori, di coraggio di imprenditori e presidenti che si traducono in un centro di gravità permanente dell’intero paese: Illinois, oh Illinois!
Salubre e industrioso, ma anche ingegnoso e sicuro di sé, più affermato e realizzato del Michigan natio: così Sufjan Stevens descrive lo stato dell’Illinois in numerose interviste. Parole che, e di nuovo ci scappa un sorriso, potrebbero essere facilmente pronunciate da Leslie Knope, il personaggio principale di Parks and Recreation, serie ambientata nella finzionale cittadina dell’Indiana di Pawnee (stato anch’esso del Midwest). La serie, corale e esilarante, cavalca lo spirito “Americana” e attinge a piene mani dal folklore locale e sfarzoso di una sfilata in costume a stelle e strisce. Con lo stesso bagliore di grottesca stravaganza e complice il gioco di parole tra “Illinois” e “noise” (rumore), Sufjan Stevens ci chiama a raccolta: “C’mon, Feel the Illinoise!” è l’invito senza ritorno a immergerci nel mare magnum e nel frastuono americano.
TWO.
“It was kind of ambitious from the start, because I knew I wanted it to be really big and on a grand scale. I wanted it to be almost like a movie soundtrack, but without the movie. […] I had a vision that was very grand and epic, and a lot of times I think the songs I write on the piano lend themselves to more embellished arrangements. Some of the song started turning into Broadway musicals, with multipart harmonies, and woodwinds and trumpets.” (Intervista a Dusted Magazine, 2005)
Chiamatelo sussidiario, guida illustrata, compendio storico. Illinois è un’opera incredibile, un Great American Songbook che mischia ballate folk a Leonard Bernstein, ed elegge Sufjan Stevens come nuovo cantore degli Stati Uniti. Alla base di questo progetto, un approccio crono-storico che mescola tradizione orale, cronache minori e aneddotica amalgamandole nell’impetuoso flusso storico americano. In quattro febbrili mesi, Sufjan porta avanti un lavoro parallelo di composizione e documentazione: legge Abraham Lincoln, Saul Bellow (più volte cita “Le avventure di Augie March” come il romanzo americano per antonomasia), il poeta e cantore di Chicago Carl Sandburg, gli almanacchi storici Frontier Illinois sui movimenti dei migranti europei e dei nativi americani. Non solo. Entra in contatto con memorabilia, piccoli oggetti, fotografie d’epoca. Telefona e scrive ad amici dell’Illinois per chiedere loro alcuni episodi particolari sui quali fare ricerca. Legge di avvistamenti misteriosi: leoni, coccodrilli, canguri. E ancora di concorsi di bellezza, parate e corse di maiali, feste per la raccolta del grano, eroi locali di origine polacca.
Illinois is a projection of my enthusiasm and my imagination for a particular place that was a bit unfamiliar to me. It’s really a fabrication. (Intervista a Pitchfork, 2006)
Tante le motivazioni che muovono un progetto del genere: definire l’identità americana, in prima battuta. L’America, proprio per la sua storia giovane e composita, canta spesso di sé perché alla costante e disperata ricerca di una radice, una mitologia, un significato profondo, una personalità. Peculiari e molto precisi i termini che usa Sufjan nelle varie interviste: si riferisce agli Stati Uniti come un “patchwork quilt”, ovvero una trapunta composta da diversi pezzi con tante fantasie. In un modo simile, pezzo dopo pezzo, si forma Illinois: tante microstorie selezionate per comporre in modo corale e unico la Storia – quella che si legge sui manuali. Senza intenti didattici, politici o patriottici, ci avverte Sufjan. Credo, sostiene in un’altra intervista, che questo progetto non sia tanto sugli Stati Uniti quanto su me stesso e sulla mia immaginazione. Gli stati sono loro stessi una specie di struttura, un canovaccio, e creano delle linee guida casuali tuttavia utili.
Sufjan, ricordiamolo, non è a casa sua. Citando e capovolgendo Franca Leosini, si muove con passo bambino in un universo tutto da scoprire. Il suo sguardo gattona, un po’ come i migranti in terra straniera, tra le esperienze vissute (poche, legate a viaggi e trasferte) e le proiezioni immaginarie sui luoghi nei quali non è mai stato, ora esplorati su mappe e libri. La città di Chicago diviene il simbolo della fuga e della rinascita; il Super Museum di Metropolis dedicato a Superman è una sosta di un pellegrinaggio laico; il Mississippi Palisades State Park, a nord della città di Savanna, è il setting ideale, con le incredibili chiome rossicce dei suoi alberi, per il ricordo mai sopito di un camping adolescenziale. Ogni luogo assume le forme morbide di ricordo; ogni ricordo è rimodellato sui connotati geografici di un luogo. E’ un’operazione creativa di evocazione, trapianto e aggiustamento, palmo a palmo, città dopo città.
Un vero atto, improvvisato eppure cosciente, di cartografia del cuore.
E’ qui che Illinois smette di essere solo reportage in forma musicale e diventa (anche?, soprattutto?) qualcosa d’altro. E’ nell’intreccio di immaginario comune, di memoria e fantasia quasi fanciullesca, e ancora nella capacità di sovrapporre scoperta del territorio a intima introspezione dell’animo umano, che Illinois si eleva e intercetta il grande romanzo americano: quel luogo altro, epico e grandioso, dove la history delle cronache diventa una story – un racconto personale di self-discovery; e ancora, a doppio movimento incrociato, il luogo in cui le tante stories (narrazioni) individuali si amplificano e diventano una – la grande storia (history) collettiva.
Non è un caso, forse, che Sufjan abbia sempre voluto fare lo scrittore di fiction. Non è nemmeno un caso che Dave Eggers, uno dei più importanti autori americani contemporanei, gli mandi subito una mail dopo aver ascoltato Illinois – descrivendolo come “uno dei migliori romanzi mai scritti sull’Illinois”. I due poi collaboreranno nel 2007; ma questa…è un’altra storia.
[intervallo: Un minuto di raccoglimento per celebrare le mani di Sufjan Stevens. fine intervallo]
THREE.
Sufjan Stevens è un uomo dal multiforme ingegno. Sin da piccolo suona tastiere e piano, (ma impara a leggere solo in terza elementare), a 14 anni inizia a studiare oboe e corno inglese, conclude gli studi in scrittura creativa con un Master in Fine Arts a New York, e mentre sogna di diventare scrittore, lavora come graphic designer nell’ambito editoriale.
Non solo. Nella press release di A Sun Came (disco del 2000), si definisce un “amateur seamster, a crocheter of ski caps”, rivelando una passione per il cucito, sia inteso come knitting, lavoro all’uncinetto, che come sarto di vestiti. Questa passione, udite udite, lo porterà a realizzare dei lavoretti per la bibbia delle ultracinquantenni americane bianche: la rivista di Martha Stewart. (Vi togliamo subito una curiosità: sì, le divise da cheerleader per le foto promozionali di Illinois sono state cucite proprio da Suf con una Singer nera. Lo potete vedere nel trailer del documentario Crooked River, mai pubblicato per volontà di Sufjan e del fratello Marzuki).
Quelle stesse mani, belle e forti e vere, hanno iniziato a tessere nuovi disegni. L’ordito è ora lo stato dell’Illinois, una base perfetta sulla quale creare delle trame. Sufjan sferruzza sulle corde della chitarra e del banjo come sulle fila di un telaio: ecco il tessuto, la coperta, il patchwork quilt.
There’s so much pedantic subterfuge on this record, and historical two-stepping, cross-referencing, cultural theory, Marxist criticism, and on and on… […] I use the short story formula: observational detail, sensory language, landscape, setting, and character development. Sometimes I think every song needs a point of conflict, a crisis, a climax, a denouement. These are structures of literature, of course. But maybe it’s because I’m so old school. (intervista a Gapersblock, 2005)
Seguendo lo stesso schema, il suo approccio all’impresa narrativa di Illinois riflette sia il concetto di stratificazione che di polifonia, tipici della letteratura post-moderna. La prima idea è la chiave stessa di Illinois. In molte interviste Sufjan parla di “cycle of civilizations” riferendosi alla storia americana per sua natura composita ed eterogenea: città sopra città, culture su culture, società su società. Per analogia Illinois si presenta come un’opera multistratificata in cui alla storia dello stato si sovrappongono più livelli di contenuto: i ricordi personali di Sufjan, il mito e l’epica degli Stati Uniti, la colorita aneddotica locale, l’onnipresente fede in Dio, il tutto ricamato con simboli e immagini ricorrenti. Questa cifra narrativa e stilistica è talmente costante nella poetica di Sufjan da poter essere considerata alla stregua di una formula matematica.
Il secondo punto è la polifonia, un concetto caro a Michail Bachtin, autorità in materia di critica letteraria. Semplificando: secondo Bachtin la stratificazione delle voci, insieme allo sdoppiamento tra autore e narratore, conferisce profondità e ricchezza al romanzo. La polifonia narrativa porta le tracce di memorie, sensazioni, percezioni, influenze culturali dell’autore – che verranno riversate nella lingua dei personaggi del romanzo.
Polifonia e stratificazione si traducono anche negli stili musicali adottati da Sufjan. Il canovaccio storico di Illinois è animato da una gamma impressionante di generi che abbracciano tradizionale popular a espressione più alta: folk, jazz, lo swing delle pompose orchestre dei musical di Broadway, rêverie di cori, country, marching band con spelling da cheerleader, musica classica romantica e derive minimali contemporanee. Gli intenti, d’altronde, sono grandiosi ed epici. Il risultato è un poema sinfonico ricco di sfumature, arrangiamenti incredibili, passaggi arditi, giochi di dinamiche e volumi il cui processo di registrazione, anch’esso bizzarro, è ben documentato qui.
FOUR.
Difficile scegliere un punto di partenza per questo viaggio. Come ogni poema epico che si rispetti, Illinois ha un proemio: è la traccia numero tre, la cosmica C’mon Feel The Illinoise, che non solo funge da introduzione, ma è un riassunto di tutto il racconto a venire con tanto di invocazione alla Musa ispiratrice. Come ammesso da Sufjan stesso, questa canzone, composta in due parti, fa letteralmente da arco all’intero album. Nella prima parte è evocata la Columbian Exposition, l’esposizione universale di Chicago del 1893, celebrazione ostentata e confusionaria dei 400 anni della scoperta dell’America, ma anche sorta di “punto della situazione” di ciò che erano e che sarebbero divenuti gli Stati Uniti nel secolo successivo – un paese entusiasta, giovane e cocciuto dagli intenti grandiosi e sfarzosi, orgoglioso della propria etica capitalista e in egual misura del suo spirito patriottico. Per cantare tutto questo, Sufjan ha bisogno di una guida spirituale – un po’ come Dante nella Divina Commedia. A tendergli la mano è Carl Sandburg, poeta e cantore dell’Illinois e di Chicago. Dallo stile classico, stentoreo e romantico, Sandburg è anche famoso per il suo American Songbag, antologia di canzoni folk che Sandburg portò in tour con chitarra e banjo: ecco la Musa perfetta per Stevens.
A seguito di una progressione armonica a dir poco emozionante e una prima parte in bilico tra Linus and Lucy di Vince Guaraldi e una produzione musicale di Broadway, la seconda metà del brano narra di un incontro fantastico e onirico: Sandburg fa visita a Sufjan sotto forma di fantasma, durante un sogno.
I cried myself to sleep last night
And the ghost of Carl, he approached my window
I was hypnotized, I was asked
To improvise
On the attitude, the regret
Of a thousand centuries of death
Scriverai col cuore?, chiede Sandburg. L’approccio che adotterà Sufjan sarà sincero – restare fedele a ciò che si trova dentro di sé. Fervente cristiano, Sufjan scriverà di beatitudes e del devil’s territory, di meraviglie e di fatti oscuri dell’Illinois.
Neanche il tempo di prendere il fiato dal tourbillon di C’mon Feel The Illinoise che cambiano subito i toni. E’ il turno di John Wayne Gacy, Jr., racconto in musica del serial killer che negli anni ’70 uccise, come nella più torbida delle storie maledette, una ventina di ragazzi. Sufjan non vuole cercare delle cause, anzi, ne parla nel modo più umano possibile. Si lascia sfuggire un Oh my God – un lamento armonizzato, sofferto, perfetto. Un “oh, mio Dio” che è volontà di porre una distanza, ma allo stesso tempo è un’esclamazione di sorpresa; perché alla fine, oh, mio Dio, siamo proprio come lui, canta Sufjan. Sospiro. Lo stesso sospiro si può sentire verso la fine di The Seer’s Tower, una visione panoramica e apocalittica che paragona la Sear’s Tower di Chicago alla Torre di Babele per mostrare il degrado morale dell’uomo, così presuntuoso da pretendere di poter agire (e perfino uccidere) senza Dio. I versi finali “Still I go to the deepest grave/Where I go to sleep alone” fanno idealmente il paio con l’eterno dolore della perduta gente dell’inferno dantesco.
Illinois sa essere un enorme calderone di mitologie e simboli che si rincorrono, si fanno eco e si intrecciano. La traccia (o meglio: l’ordito) che sottende le varie storie è il territorio americano letto alla luce del libro l’Esodo. La storia, ben conosciuta, narra dell’oppressione del popolo israelita da parte degli egiziani e del viaggio, guidati da Mosé, verso la Terra Promessa. Questa storia può essere riletta sia dal punto di vista degli indiani d’America, sterminati e oppressi dal conquistatore bianco fino al punto di sentirsi, paradossalmente, stranieri in terra loro: ma ancor prima la mitologia dell’Esodo ha legami col viaggio oltreoceano dei coloni americani, i Padri Pellegrini, scappati dall’Europa dopo la persecuzione cattolica nei confronti dei protestanti puritani. Da perseguitati a persecutori: buffo il destino. Un destino che il popolo americano non tarderà a definire manifesto, espressione usata inizialmente dai democratici del presidente Jackson – menzionato da Sufjan nella quinta traccia, Jacksonville.
In tutto Illinois troviamo riferimenti (l’ultima traccia su tutte, Out of Egypt, in odor di Philip Glass) al mito dell’Esodo. Basta un occhio alla mappa: la somiglianza tra Mississippi, Valli del fiume Ohio e delta del Nilo ha fatto sì che il South Illinois venga anche chiamato con l’epiteto “Little Egypt”. E ancora: Mosé, colui che salva il popolo d’Israele dalla schiavitù egiziana, si reincarna in Abraham Lincoln, presidente che abolisce la schiavitù. Altre incredibili trame: la figura di Mosé è rintracciabile nella celebrazione di Superman (traccia 12: The Man of Metropolis Steals Our Hearts), l’uomo più puro, il prescelto, originario della città di Metropolis, Illinois. [N.B. Superman, tra l’altro, compariva sulla copertina originale di Illinois. La vediamo all’inizio di questo scritto.]
Altri incroci: Lincoln, alto quasi due metri, ricorda le spalle grandi di Superman (traccia numero 20: The Tallest Man): l’iscrizione sulla sua tomba al Lincoln Memorial recita “IN THIS TEMPLE AS IN THE HEARTS OF THE PEOPLE FOR WHOM HE SAVED THE UNION THE MEMORY OF ABRAHAM LINCOLN IS ENSHRINED FOREVER” (confrontatela col titolo della traccia 18: sono pressoché identici). E inoltre: Superman, Lincoln e Mosé sono salvatori, eroi della comunità, pronti al sacrificio, ad espiare le colpe collettive. In pratica: novelli Gesù. Si potrebbe andare avanti all’infinito, come un fiume sotterraneo che si dirama in più rigagnoli.
Un ulteriore sottotesto, sempre attinente al simbolismo storico, è il racconto di esperienze ultra-terrene e fantasmagoriche con revenant, zombies, fantasmi. Shining ce lo insegna – il territorio americano è una scena del crimine a cielo aperto, vittime silenti gli indiani d’America, evocati più volte da Sufjan (tracce 2, The Black Hawk War, 13, Prairie Fire That Wanders About, e 16, They’re Night Zombies!). Altro elemento extra-terrestre, oltre all’alieno Superman, sono gli avvistamenti degli ufo avvenuti nel sud dell’Illinois a cui il brano di apertura fa menzione, Concerning the UFO Sighting. Non ci dobbiamo stupire, poi, se Sufjan sovrappone la sua storia personale a Little Egypt e agli egiziani, una delle più importanti civiltà antiche ad avere il culto del cielo e degli oggetti misteriosi. Il nome “Sufjan” fu scelto dal fondatore di Subud, una comunità spirituale a cui i genitori di Stevens, hippie incalliti, avevano aderito a metà degli anni ’70. Sufjan racconta infatti che durante la sua infanzia i genitori iniziarono ad abbracciare il movimento degli Star People, convinti di provenire da un altro mondo, dimensione o pianeta. A questi livelli si aggiunge un altro punto di vista: possiamo considerare i visitors di un altro pianeta come gli immigrants che hanno reso così variegata la storia e la popolazione americana.
Questo processo di sovrapposizione di significati è ben evidente in canzoni come Decatur, che intreccia un esercizio di stile e di rime, episodi di cronaca locale come avvistamenti di leoni e canguri, citazioni dell’Esodo (It’s the great I Am) in un tentativo di riconciliazione con la madre adottiva; e ancora in Casimir Pulaski Day, oh eccome.
[Pausa che dura giusto il tempo di un respiro: sfido a trovare una persona che non abbia versato lacrime leggendo il testo di questa canzone.]
Riprendiamo. Casimir Pulaski Day, incredibile tableau vivant. Seguiamo con gli occhi il padre della protagonista che si getta con la macchina nella baia; vediamo i baci rubati tra lei, la ragazza col cancro alle ossa, e lui, il narratore; il catechismo di martedì sera; e ancora la maglia rimboccata e le scarpe con le stringhe slacciate; i pianti sul pavimento dell’ospedale. La canzone abbraccia in un solo colpo una storia commovente, la festività del Casimir Pulaski Day (soldato polacco morto durante la Guerra d’Indipendenza Americana) e ancora la fede in Dio, dibattuta e messa in questione, tuttavia sempre presente e calda.
Un ultimo esempio di sovrapposizione è The Predatory Wasp of the Palisades. L’operazione di mappatura emozionale è qui ben percepibile: il ricordo di gioventù vissuto da Sufjan (il camping) è posto e romanzato sullo sfondo geografico delle Palisades del fiume Mississippi. Ambientato in una meravigliosa scenografia, ascoltiamo il racconto di un innamoramento giovanile che sopravvive nel ricordo. La voce di Sufjan è più che mai emotivamente coinvolta e simbolicamente sorretta dal coro: i canti si sovrappongono, come in un canone gregoriano, ad accrescere il pathos, la memoria, il sentimento. Nonostante la sua stratificazione evidente, The Predatory Wasp è la canzone più criptica e intima dell’album; ad ogni ascolto risulta sfuggevole eppure esplicita, come un messaggio sottinteso che suggerisce ed evoca. Un sorriso sornione e nostalgico.
GO.
You came to take us
All things go, all things go
To recreate us
All things grow, all things grow
Non è un caso che Sufjan suoni questo brano alla fine di ogni suo concerto. Chicago è la sua canzone più conosciuta, certo. Ma è anche il culmine del viaggio di Illinois, la fine dell’Esodo, di un percorso analitico. E’ il luogo del riconoscimento e della scoperta della propria identità, lì dove tutti i fili delle storie vengono a capo. E’ l’espiazione delle colpe (il mantra di I’ve made a lot of mistakes).
E’ il compimento del cerchio narrativo, di un ciclo di costruzione, distruzione, ricostruzione (per citare le parole di Sandburg nel poema Chicago: building, breaking, rebuilding), il momento di massima tensione e compimento del romanzo di formazione, dell’autobiografia e della cartografia. Tutto converge a Chicago, città dalla quale partire, dove spogliarsi dei vestiti come novelli Francesco D’Assisi e ritrovarsi, ri-crearsi, rigenerarsi. Liberi, finalmente!, liberi – dalla terra così come da se stessi.
Chicago – e tutto Illinois – è un inno di auto-accettazione. Una festa dell’Indipendenza. Una celebrazione mistica.
E’ una messa gioiosa in cui i fedeli vanno in pace danzando e librandosi nell’aria. E cantano in coro.
All things go, all things go.