Il South By Southwest (SXSW) è senza dubbio uno degli happening musicali e culturali più importanti del globo terraqueo. Musica, cinema indipendente, nuove tecnologie: ogni anno per alcuni giorni Austin, capitale del Texas, diventa il centro di esibizione e di discussione sullo stato dell’arte della cultura mondiale (ma in quella città gli eventi musicali non mancano, basti pensare al Levitation, la cui line-up per il 2016 è stata presentata ieri). Quest’anno poi, l’11 marzo è intervenuto con un discorso persino il presidente degli Stati Uniti Barack Obama. Non proprio uno di passaggio.
Nella delegazione italiana che ha fatto parte del cartellone del SXSW figuravano anche i pugliesi Moustache Prawn. Non è la prima volta che la band di Fasano supera i confini nazionali per esibirsi, ma il primo viaggio oltreoceano è certamente una tappa indimenticabile da tramandare.
Proprio per questo, abbiamo chiesto ai ragazzi di raccontarci il festival sia nel ruolo di musicisti sia in quello di avventori. Lo hanno fatto a parole e tramite un video e alcune splendide foto.
Come si fa a descrivere in poche parole cosa si prova a suonare al South by Southwest (SXSW) di Austin, Texas, uno dei festival internazionali più importanti al mondo?
Semplicemente, non si può.
È impossibile descrivere le vibrazioni, le immagini e le sensazioni che si provano mentre si percorrono le strade del cuore pulsante del Texas, tra i Liquor Store, le macchine della Polizia, i tacos, le tavole calde, i fast food a ogni angolo e soprattutto tanta, tantissima musica!
Appena mettiamo piede sul suolo americano abbiamo già l’impressione di trovarci in una scena già vista di un film. Nessuno di noi era ancora mai stato negli Stati Uniti.
Il nostro appartamento si trova in un condominio gestito da messicani, un quartiere per niente tranquillo, con tipi loschi nei parcheggi, pick-up sgangherati ed il tipico market con luci al neon accanto alla stazione di benzina. Il nostro primo pasto è una specie di tacos con avocado intero, salsa all’aglio e pico de gallo. Avremmo scelto qualcosa di più commestibile se solo la commessa messicana si fosse presa la briga di imparare due parole di inglese prima di aprire un’attività commerciale negli Stati Uniti.
Nel frigo troviamo un quarto di manzo. Nel bagno, uno shampoo per uso uomini-cavalli, un’offerta 2in1 di dubbia convenienza.
Il giorno dopo ci svegliamo presto per fare il check-in all’Austin Convention Center, la base suprema del SXSW, dove si tengono le varie fiere (musicali e non), la mostra delle locandine, la sala dei videogames anni 90’ ed un’infinità di altre cose. Ritiriamo i nostri braccialetti e cominciamo a girare per Austin a consegnare volantini e ad attaccare locandine per invogliare la gente a venire ai nostri tre concerti. Sembrano tutti molto incuriositi del nome Moustache Prawn e ci confessano che si tratta di un nome molto strano e che lo trovano divertente. Mettiamo piede per la prima volta nella 6th Street, la strada più famosa e animata dell’evento, dove succedono le cose più strane e dove tutti danno di matto, perché si sente l’eccitazione nell’aria, e c’è gente che suona sui balconi e per strada e dalle finestre, e tipi assurdi con assurde maschere al volto, e predicanti cattolici che maledicono i peccatori condannandoli all’inferno. Davvero.
Il 16 marzo è il giorno in cui abbiamo due dei tre showcase. Il primo si trova in un locale italiano, il N°28, dove incontriamo tutte le altre band italiane che si esibiscono al SXSW. Ma prima di arrivarci capitiamo in Josh Homme e Dean Fertita che entrano da Jo’s, un posticino niente male in cui la cameriera ha i baffi e il titolare i capelli rosa, e noi per qualche minuto lì fermi a guardarci per poi decidere che è decisamente il caso di entrare a salutarlo e di farci una foto con lui. Dopo aver scoperto che siamo italiani sfoggia tutto il suo vocabolario con frasi del tipo “ti rompo il culo” e “ti scopo la figa”.
Ce ne andiamo contentissimi a suonare al N°28, in acustico, per It@ly SXSW, che coinvolge i gruppi italiani presenti con noi al festival (Birthh, Joan Thiele, Kalàscima, Platonick Dive, Brothers in Law, Go!Zilla), c’è anche Luca De Gennaro, e poi c’è Puglia Sounds, Italian Trade Agency e Fimi.
Alle 23.00 invece, è la volta del nostro primo showcase in elettrico, al Palm Door on Sabine, una sala per cerimonie e matrimoni, ma anche concerti (se tu vivessi ad Austin è molto probabile che durante il SXSW userebbero la tua casa per farci un concerto, perché si suona davvero dappertutto!).
Il giovedì del 17 marzo, alle 12 del pomeriggio, nemmeno il tempo di bere metà di un annacquatissimo caffè americano preso al volo da Starbucks, ci ritroviamo catapultati sull’International Day Stage, un palco importante all’interno dell’Austin Convention Center dedicato a operatori, delegati, media e artisti. È qui che la gente viene a chiederci di comprare il nostro disco e dove scambiamo contatti con persone da tutto il mondo, dal conduttore radiofonico di una stazione di Chicago al caro Herman, un giornalista colombiano che ha voluto farci un’intervista e che l’ultimo giorno voleva a tutti costi portarci a Houston con la sua jeep. La cosa più bella del SXSW è che offre opportunità. Può succedere tutto in qualunque momento. Puoi startene buono a mangiare un sandwich all’angolo della strada e qualcuno viene da te a farti delle domande e a scambiare contatti, a prendersi il tuo disco e darti il suo biglietto da visita. In generale, si crea una rete di scambi che in qualsiasi altra situazione o festival sarebbe del tutto inimmaginabile. È un festival di musica e per la musica. Tutto è a misura di musicista, dalle aree lounge dove ti sistemano i capelli, ti fanno le foto e ti regalano gli zaini, alle zone ricreative dove ti danno da mangiare e da bere a quasi ogni ora del giorno, purché tu abbia uno di quei braccialetti e stia nella programmazione. In Italia non abbiamo mai visto nulla del genere. Qui è ben chiaro che non sono gli organizzatori di eventi a fare il festival, ma chi ci suona, chi per quaranta minuti si distrugge i polsi e salta da una parte all’altra del palco per offrire uno spettacolo al pubblico che lo sta guardando.
Ma dopo aver fatto amicizia con tantissimi altri gruppi e tantissima gente del settore, decidiamo che è il momento di andare a vedere un po’ di concerti. Così ce ne andiamo a vedere uno dei nostri gruppi italiani preferiti, i Go!Zilla, all’Hotel Vegas, per poi ritornare a casa con Uber, un sistema molto utilizzato lì. Tra l’altro per strada troviamo una casa in fiamme e assistiamo a una di quelle scene da film in cui i poliziotti entrano in casa con la torcia sfondando la porta a calcioni.
E arriviamo al venerdì del 18 marzo. Decidiamo di prepararci un programma (che ovviamente non rispetteremo) e di dedicare la giornata completamente ai concerti. Si inizia alle 12.00 al Radio Day Stage, dove si esibiscono, nell’ordine, Jack Garratt, cui paragone con James Blake è evidente, ma che sul palco è capace di suonare mille cose allo stesso momento. Lo show è rovinato dalla visione di una ragazza che invece di riprendere il concerto riprende la propria faccia che canta la canzone e fa finta di commuoversi. Poco dopo è il momento di Chvrches, semplicemente la voce più fastidiosa della storia della musica popolare dall’800’ sino ai giorni nostri, e poi Bombino, chitarrista nigerino dalle dita sottili accompagnato dalla sua band, un viaggio ipnotico nel deserto. Infine seguiamo il consiglio di qualcuno di andare a vedere questo gruppo di ragazze spagnole, le Hinds, di cui tutti parlano. La domanda che sorge spontanea dopo appena due minuti di concerto è: perché? Perché mi trovo qui? Cosa c’è di sbagliato nell’industria discografica? A chi mai potrebbe piacere una roba del genere? Poi l’auditorium è pieno e ti senti proprio male! Ce ne andiamo amareggiati e confusi a vedere i Wolfmother al Lady Bird Lake Stage, in un bellissimo parco che si affaccia sul fiume Colorado, ma dopo tre canzoni siamo costretti a trovare riparo da Jo’s a causa di un violento temporale che ha costretto lo staff a sospendere il concerto. Prendiamo un altro Uber e andiamo allo Stubb’s, dove si esibiscono prima gli Everything Everything, cui ultimo album è molto interessante e che provano a trasmettere la stessa energia dal vivo, e gli attesissimi Crystal Castles: la cantante sale sul palco con gli occhiali da sole e quell’aria da diva sfatta che ti fa girare la testa solo a guardarla, ma dopo solo tre pezzi ci sono problemi al campionatore e sono costretti ad andarsene con la coda tra le gambe e l’aria seccata. Fine del concerto. Per fortuna ci rimane ancora un po’ di energia per andare all’Hotel Vegas a vedere l’incredibile concerto di quei diavoli in acido dei Thee Oh Sees: sputi, spintoni, lattine di birra che volano, doppia batteria, stage diving, urla, tanta rabbia. Uno di quei concerti che non ti scordi più nella vita. Altri gruppi che ci sono piaciuti: Cocofunka, Harts, Mystery Lights, Lucius, The Away Days.
Arriviamo all’ultimo giorno di SXSW che siamo fortemente provati dall’esperienza. Un misto di Jet Lag ritardato, sonno arretrato e hamburger non digeriti ci portano a fare i turisti in giro per Austin. Andiamo a vedere i rangers e i quadri dei governatori texani al Campidoglio, a provare gli Stetson nei negozi di cappelli e a comprare un paio di stelle di sceriffo e stupidi souvenir di armadilli vestiti da cowboy. Il problema vero sono il cibo e le sigarette. Troviamo sollievo dai fast food nei grocery market, dove almeno ci si può sedere al bancone e prendere una scatola di birra da 8 dollari. La sera andiamo a vedere i Bloc Party al Gatsby, e l’aspettativa era tanta perché ai tempi di ‘QOOB’ (e quindi quando eravamo dei ragazzini con gli amplificatori Behringer) li passavano continuamente e ci piacevano parecchio. Vorrei non averli visti dal vivo. Kele Okereke, evidentemente in sovrappeso, è a disagio col mondo. A un certo punto un roadie viene a sistemargli il microfono e lui lo abbraccia fino a farlo cadere per terra e a farlo andar via imbarazzato. Hunting for Witches però la fanno bene.
Arriviamo al 20esimo giorno di marzo che Austin si trasforma in un’altra città. Sembra essersi ripresa da una sbornia durata 5 giorni ed è domenica, la gente va in giro con le facce distrutte e molti rischiano di farsi investire perché non si accorgono che il semaforo è rosso. Noi per fortuna ce ne andiamo nella periferia a mangiare vietnamita e ad incontrare Ryan per una video live session, in uno studio fotografico/sala prove che ha come marchio una donna mezza nuda seduta su una chitarra elettrica in fiamme. Al nostro ritorno assistiamo allo smantellamento della 6th Street, e un po’ ci rimani male, come quando smontano le giostre del paese, e te ne vai triste in un grocery a bere una Bud di fronte a un cavallo parcheggiato davanti a un negozio di tatuaggi.
Il giorno dopo è lunedì, c’è tempo per un nostalgico salto a Congress Avenue, dove si percepiscono la vera anima e i veri colori dell’America, i Motel con la scritta vacancy che lampeggia e le tavole calde color verde acqua, gli scuola bus giallo oro e le Ford Thunderbird rosso fiamma che sfrecciano per strada, e il riverbero lontano di A Change is Gonna Come di Sam Cooke che risuona dalle finestre di un bar.
Questa è Austin e questo è il South By Southwest, una città straordinaria e un festival straordinario che in così poco tempo ci hanno dato tanto e che porteremo sempre nel cuore.