“This makes me proud to be British.”
Un discorso ufficiale, una premiazione olimpica, un convegno che festeggia un sole soltanto dipinto.
Il campione vocale distorto compare e si reitera ossessivamente nell’intro, nell’outro, e a metà LP.
Il titolo tripartito è Stealth, ovvero “segretezza”, “azione furtiva”: il soggetto della frase è infatti omesso, a testimonianza del fatto che non ci sia molto di cui andare fieri. Il tono sprezzante si intuisce già dalle sirene, ipocriti tentativi di dare ordine ad un nuvoloso groviglio.
Un recente live di Dean Blunt è stato aperto da Martin Creed, rinomato scultore, pittore e ora musicista.
Creed, uno degli artisti più diretti e puri di tutta la monarchia, sostiene che la ripetizione funga sempre da confortante staccionata, riparo dalla giungla feroce. La triade Stealth, qui, ha l’effetto opposto: le corde eleganti e pulite diventano progressivamente asfissianti, drammatiche.
Descrivere Dean Blunt –al secolo Chissà- è impresa ardua, essendo altrettanto difficile, di fronte alla sua opera, focalizzare il confine tra lezione, invenzione e parodia.
Un rapido, emblematico esempio: a inizio anno, una sua mostra fotografia a Londra si è rivelata consistere in una sola immagine, una fotografia stock di un sorriso “inter-razziale” di due ipotetici colleghi d’ufficio; al posto di una colonna sonora da museo, il Mosquito Alarm, un dispositivo ad altissima frequenza utilizzato contro i giovani vandali, perché udibile solo dagli under 25. Una critica alle politiche anti-creative del governo, mista ad un puro senso del gioco, a sbeffeggiare la presunta alta cultura dei fruitori.
Nato da retaggio nigeriano in un quartiere multietnico della capitale, Blunt è dunque un maestro del postmodernismo per costituzione: l’esistenza è un collage, l’indeterminatezza è il senso, ogni preconcetto è inutile.
La fotografia di cui sopra esponeva senza pudore l’etichettamento razziale che assurdamente sopravvive in gran forma nel terzo millennio. Un problema con cui un britannico di colore si deve necessariamente confrontare, e che ha portato Dean Blunt a rispecchiarsi, almeno in parte, nei temi dell’hip-hop.
Circoscriverlo ad un genere musicale sarebbe però una folle blasfemia: ognuno dei suoi album rifiuta ogni possibile categorizzazione; inoltre lui stesso ha dichiarato, in una delle rare interviste concesse, di considerare la distinzione tra generi alla stregua della discriminazione razziale, intesa anch’essa a “mantenere il controllo”.
Se non ce lo può garantire Dean, il ponte tra tipo musicale ed etnia ci è indicato proprio dalle forze dell’ordine: seppur rivisto nel 2008, il Form 696 costringeva –e in parte costringe tuttora- gli organizzatori di un evento a Londra a fornire informazioni sui generi musicali suonati e sulla probabile composizione etnica del pubblico, sottintendendo una correlazione tra origini geografiche e grado di minaccia alla sicurezza pubblica.
Black is Beautiful, appunto, era il titolo dell’ultimo disco in collaborazione con Inga Copeland, con cui formava il delirante duo Hype Williams.
“Niente significa più nulla, ormai” era la loro scusa, che paradossalmente spiega tutto.
Non gradisce parlare della sua arte, e non saprebbe nemmeno come farlo; proprio come Martin Creed, che balbetta e ride perché raramente si rende conto di ciò che sta costruendo: esiste solo il processo.
Vita e arte si equivalgono, dunque, ma mentre Creed teme di prendere in giro se stesso, Blunt non considera nemmeno la possibilità, ed è lui a prendersi gioco di noi.
Ecco che tutto può coesistere, e non c’è limite alle citazioni: Nas e Neil Young nello stesso pezzo (N.A.Z.), il verbo di French Montana adagiato su archi strazianti, il caps lock azionato a tratti sparsi nella tracklist.
Londra non esisterebbe, senza le sue 300 lingue e 50 comunità non indigene.
La frammentazione concentrica assume, però, anche facce negative: non c’è unità, nemmeno all’interno di un isolato.
Preoccupazioni di questo genere sono presentate da Blunt, ancora una volta, in modo quasi parodistico: dallo sgradevole iperrealismo della copertina, al titolo che fa il verso alla cultura oceanica dei mixtape, troppo spesso volti a dire nulla, credendo di dire molto. Greezebloc -un beat reminiscente dell’hip-hop dei primi anni 2000- e Motivation –hihats e bassi da drill atlantiana, e vaga, casuale proclamazione di superiorità- distribuiscono stereotipi a dozzine, con un umorismo contorto che ci porta a chiedere da che parte stiano, e da che parte stiamo noi.
Su questa scia, Babyfather è -fittiziamente?- composto da Blunt, Gassman D, e da DJ Escrow. Quest’ultimo ha una voce irritante, il pitch modificato come Madlib fece con Quasimoto e un nome che ride alle spalle di Future e del suo DJ, Esco. La prospettiva di Escrow funge da finta autocensura, che finisce per svelare le verità più brucianti del criptico messaggio di BBF. Ricorda, tra l’altro, le voci dei DJ della radio pirata, fulcro della resistenza culturale dei sotterranei londinesi.
The Realness, l’integrità, è uno dei brani più confusi: su archi vistosamente digitali, le “s” pronunciate da Blunt fischiano e fischiano, finché fischia tutto. Flames e Prolific Daemons sfiorano l’inascoltabile, sembrano proteste dritte ai timpani.
A proposito di regole disprezzate, in buona parte delle ventitré tracce c’è la mano di Arca, a santificare il brutto: Snm è un suo tipico rantolo d’ansia, Deep porta inattesa meraviglia. Meditation ha l’anima dub che rende grande l’arte britannica; un bimbo piange, due auto sbandano, tre ragazzi litigano, ma la voce di Dean Blunt rimane garbata. È rabbia intelligente, e a metà pezzo il gemito viene calmato dall’Autotune, i riverberi divengono più attuali, la paura più palpabile.
“Pour some liquor on my head”, dice, e chissà se scherza, chissà se davvero vorrebbe essere accecato dalle sostanze per dimenticare che siamo scuri dentro. Ci possiamo avvicinare alla sua mente solo per un attimo, e subito torniamo a chilometri e chilometri.
God Hour, assistita da Michachu –da sempre artista indipendente per eccellenza, collega di Blunt su Rough Trade Records- accentua il lato lo-fi del disco, sulla scia del jangle-pop anni 80-90 capovolto e reinterpretato da Blunt due anni fa in Black Metal.
Che cos’è il mondo se non reinterpetazione, in un’era in cui le parole crescono su uno schermo, senza degnarsi di mostrare labbra o occhi veri?
Uno dei lavori più popolari di Martin Creed è Lights Going On and Off, ovvero una sequenza intermittente di luci in una stanza vuota. Un analogo esperimento è stato messo in atto da Blunt ad un concerto recente, ed è proprio la sua gestione dello spazio che colpisce. Lo spazio che nei dischi passati sussisteva tra i titoli piatti e suoni splendenti, il contrasto in BBF tra gli allarmi e il sub-bass, tra il suo timbro grave e il pitch alto di Escrow, tra l’alta cultura del pubblico che dice di capirlo e le umili origini della sua Hackney.
Il vuoto, per Blunt, è pienissimo: sta tutto nel silenzio prima del verso di grazia in Motivation, nel buio monotono tra un riferimento in codice e la sua temporanea soluzione in fondo al web.
È il fumo che esige sul palco prima di esibirsi, per non dover parlare, per non dover sentir parlare il pubblico, per non doversi spiegare.
Ultimo ma non ultimo, per poter fumare.
BBF non è un disco facile, non è un album che ascolterete mille e più volte, non è il lavoro dell’anno. Ma è estremamente positivo che Babyfather esista, ed è giusto che Dean Blunt non smetta mai di assorbire e restituire.
BBF è fuori, ovviamente, dal 1/4.
Ovviamente, su Hyperdub.