Le illustrazioni sono di Daan van Velsen
L’Aia colpisce per la sua formalità. Sede dei Reali e di diversi governi, essa rappresenta un baluardo della borghesia olandese. Tuttavia, per tre giorni l’anno, questa municipalità diviene anche uno degli avamposti europei della musica elettronica (e non solo) grazie al Rewire, rassegna dalla programmazione solida ma soprattutto eclettica, che spazia dalle grandi star del momento (Animal Collective e Battles) a rari progetti esclusivi spesso al loro debutto. Tra quest’ultimi va annoverata fin da subito la reinterpretazione della disturbante colonna sonora di Under The Skin realizzata degli Stargaze, non solo perché ha inaugurato la kermesse, ma anche perché si è rivelata uno degli highlight assoluti della tre giorni olandese. Nonostante l’accusa di aver eseguito pedissequamente l’opera firmata da Mica Levi, l’ensamble berlinese – sul palco diretta da André de Ridder – ha riportato tutta la maestosità della colonna sonora, con i suoi archi sghembi e le sue ritmiche marziali, accompagnati per l’occasione dalle scene cardine del film Glazer (tolta inspiegabilmente quella dell’incontro con il ragazzo deforme), come a sancire l’impossibilità di svincolarla da quelle immagini, ormai legate a lei intrinsecamente per l’uso fortemente espressionista che se n’è fatto nella pellicola.
Un’esibizione che si è tenuta tra le volte gotiche di Grote Kerk (letteralmente Chiesa Grande), talvolta illuminate dalle tonalità accese del didascalico incipit del film, talvolta offuscate dal nero liquido delle sequenze della caccia. Una cornice quattrocentesca imponente che ha accolto anche le performance di Teho Teardo & Blixa Bargeld e degli Xiu Xiu nella giornata conclusiva del festival.
Tra un brulicare di tshirt degli Einsturzende Neubaten, i primi si son presentati nel coro in compagnia della fidata violoncellista Martina Bertoni quando filtravano ancora le ultime luci del sole. La loro è stata un’esibizione magistrale, che ha visto un Bargeld intento ad ammaliare il pubblico con il proprio charme, e un Teardo più sommesso, ma non per questo con le mani in mano. Impegnato da una parte a dirigere la Bertoni, dall’altra manipolava aggeggi elettronici e costruiva trame cinematiche con la propria chitarra da legare all’espressiva quanto schizofrenica voce del teutonico, spesso calda e avvolgente, altre volte grave, pungente, persino diabolica. Riflessioni e funambolismi linguistici (dall’ironica apologia di Mi Scusi alla poliglotta Come up and see me), visioni, ricordi e prove di straordinaria versatilità (la cover di Empty Boat di Caetano Veloso è una di questa), ci hanno incollato alle panche impedendoci di spostarci per la performance di Ricardo Donoso a pochi isolati di distanza. Rimaniamo quindi immobili, fino al loro congedo e all’apparizione del ricco setup degli Xiu Xiu sul palco. Uno xilofono, una batteria, una chitarra e numerosi synth vanno a comporre l’armamentario dei tre statunitensi per l’esecuzione della schizzata ed originale rilettura delle musiche di Angelo Badalamenti per l’icononico telefilm Twin Peaks. Si comincia con la celeberrima sigla e si chiude con la lettura assillante del diario di Laura Palmer da parte di Angela Seo; nel mezzo immagini di boschi mossi dal vento e della famigerata scala di casa Palmer hanno accompagnato chitarre distorte, deliri sintetici e la voce tirata di Stewart, in questa occasione sostituta a quella soave di Julee Cruise.
Ai due estremi del festival quindi ci sono due colonne sonore, due modi opposti di reinterpretarle e un unico comune denominatore: la venue, uno dei due luoghi di culto che hanno ospitato il festival. L’altro è Lutherse Kerk, chiesa a sala in cui Kara-Lis Coverdale ha proposto un doppio live set: il primo canonico, in cui ha ripreso il suo ultimo lavoro solista Aftertouches, l’altro pensato ad hoc per il festival, in cui ha suonato il baroccheggiante organo presente nella location. Il tutto accompagnato dalle luminose increspature controllate da MFO, celebre visual artist coinvolto nella rassegna non solo per adornare la magnetica performance della producer canadese, ma anche per dare una dimensione visiva al travolgente flusso sonoro di Roly Porter. Prima del suo live un solo avvertimento: “Caution for photosensitive epilepsy during the show”, ad ammonirci dello stordente cataclisma di strobo che ci attendeva al termine del ramingo fluttuare attraverso il mondo 3D immaginato da Marcel Weber. Insomma, se non è stato il miglior live del festival — e secondo noi lo è stato — sicuramente è stato il più provante. Ne siamo usciti frastornati, goduti del nostro deliquio e allo stesso tempo incapaci di dirigerci immediatamente sul dancefloor, dove ci aspettavano Not Waving, con la sua acid techno dal gusto retrò, e Via App, tra le migliori della programmazione clubbing grazie alla sua cassa in quarti sconnessa e aliena. Una scaletta che oltretutto comprendeva il giorno precedente due dei maggiori esponenti della nuova grammatica HD/Hi-Tech (da noi più comunemente conosciuta con la tag accelerazionismo): Ash Koosha e Amnesia Scanner. Entrambi freschi di release, sono l’esempio di come questa corrente abbia raggiunto una dimensione pop (gli Amnesia Scanner, per esempio, hanno rilasciato il loro ultimo EP attraverso la blasonata Young Turks, abbandonando il loro consueto formato radiogramma), il primo con il suo romanticismo post-cibernetico, i secondi con i loro trip digitali. Annichilenti proprio come il loro live, fatto di schizzi e implosioni in alta definizione, voci deframmentate e basi nerborute.
È quindi chiaro come il Rewire sia riuscito a tenerci in piedi per due notti, ma non senza un adeguato riscaldamento. Il venerdì le calde sonorità di Maâlem Mahmoud Guinia, accompagnato sul palco dai suoi tre giannizzeri e nientepopodimeno che James Holden, hanno trascinato il pubblico in un frenetico ballo collettivo. L’intervento dell’inglese è stato tuttavia minimo: le sue progressioni celestiali non hanno mai rubato la scena all’irresistibile folklore gnawa dei quattro nord africani, ai cui antipodi si è inserito invece il più scuro sabato. Tra l’etereo (Lussuria) e l’assordante (Vessel + Black Rain + Pete Swanson), questa serata ha visto suonare — si fa per dire — anche i Gazelle Twin, che hanno spezzato la regolare successione dei live con una performance quasi teatrale, Kingdom Come. Su tapis-roulant rivolti verso paesaggi urbani, i due vocalist si sono infatti esibiti (dimenati?) con fare nevrotico ed inquietante — a tratti Korine-iano — lasciando il pubblico esterrefatto prima dell’anteprima di Struggle & Emerge, il nuovo lavoro dei Lakker: una geografia musicale, fatta di atmosfere sospese e vere e proprie inondazioni sonore, che racconta del delicato rapporto tra il popolo olandese e l’acqua. Un’annosa battaglia, alla quale si può dire che ora se ne è aggiunta un’altra. Sì, perché se da una parte i residenti de L’Aia lottano continuamente con il mare — appostati dietro alle dune di Scheveningen o intenti ad allargare i propri orizzonti sui grattacieli di Spuikwartier — dall’altra iniziano a competere con i grandi eventi chiave della stagione festivaliera grazie al piccolo Rewire.
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