I Cani, Thegiornalisti, i fuorisede Calcutta e Motta e altri ancora: negli ultimi anni sembra che a Roma ad ogni ingorgo nel traffico a Porta Maggiore o sulla Colombo corrisponda la scrittura di un nuovo pezzo pop di cui innamorarsi.
Stavolta, l’autore delle canzoni che accompagneranno le imminenti calde stagioni non è un esordiente, ma un artista attivo in proprio e come autore da più di un decennio: Leo Pari. Già l’EP dello scorso anno La Metro C sembrava aver allontanato del tutto gli esordi rap e inaugurato un percorso inedito anche rispetto a quei Rèsina e Sirèna che avevano dato il via alla svolta folk/cantautorale di Leo. Oggi si è andati oltre.
Spazio, il nuovo album pubblicato pochi giorni fa, è certamente l’opera più riuscita di Pari, quella in cui la scrittura à la Battisti del periodo fine-Mogol/Panella incontra i synth anni Ottanta più catchy e un retrogusto psych-pop che rimanda anche a influenze più moderne. Soprattutto, il disco contiene dei pezzi pop praticamente inappuntabili, che si insinuano nelle orecchie in modo subdolo e ti esortano al canto e ai ripetuti ascolti. Basta ascoltare una I piccoli segreti degli uomini o Bacia Brucia Ama Usa per entrare nel tunnel.
Abbiamo chiesto a Leo di raccontarci qualcosa in più sulla nascita del suo nuovo disco, ripercorrendo anche le tappe precedenti del suo percorso artistico e contestualizzando le sue influenze.
Spazio è il terzo episodio di una trilogia ma rispetto ai due dischi precedenti rappresenta un nuovo approdo: il cantautorato si è imbevuto ulteriormente di synth. Come è avvenuto tale processo creativo?
Volevo fare un album che raccontasse della mia infanzia, ma invece di raccontare attraverso le parole l’ho fatto attraverso i suoni. Erano anni in cui passavo pomeriggi a guardare gli anime giapponesi e i telefilm di fantascienza, e tutto aveva un suono molto sintetico. Quando sono diventato un po’ più grandicello, anche in qualche sconveniente film erotico di serie B ho ritrovato le stesse sonorità.
Come è nata e come si è sviluppata la collaborazione con il produttore Sante Rutigliano? In che modo è intervenuto sui brani?
Con Sante avevo collaborato già per la realizzazione dell’EP La Metro C e abbiamo sviluppato un ottimo feeling in studio di registrazione. Per Spazio avevo scritto più di 30 nuove canzoni, e insieme abbiamo selezionato quelle che potessero andare meglio insieme, avevo già abbastanza chiaro il tipo di sonorità che avremmo dovuto realizzare. Le canzoni le ho presentate a Sante nude e crude, fatte solo con un pianoforte o una chitarra, e insieme abbiamo lavorato come due sarti per creare un bell’abito da sposa per ciascuna di loro. Lui si è occupato molto di come far suonare bene l’organico strumentale, io ho passato giornate intere sui sintetizzatori per trovare i suoni adatti, gli arrangiamenti invece sono frutto di sessioni di prova con tutta la band.
Le atmosfere del disco richiamano gli anni Ottanta ma riescono a non essere mai troppo retro. Avverti una forte influenza da quel decennio? Che ricordi hai?
Gli anni Ottanta sono quelli in cui è nata la canzone pop leggera, si utilizzavano giri armonici molto semplici e sonorità decisamente “catchy”. L’Italia sembrava felice e spensierata, gli anni di piombo erano ormai alle spalle e la bandiera con il garofano rosso sventolava nelle feste di quartiere. Era tutta un’illusione, però io ero un bambino e a quell’età si assorbe tutto quello che ti circonda con una forza incredibile; la leggerezza di quelle melodie e di quei suoni deve essermi rimasta dentro in qualche modo.
Per quanto concerne invece influenze più moderne, da un punto di vista strettamente musicale mi è parso di ascoltare reminiscenze dei Tame Impala di Currents, di Kurt Vile o di certi momenti degli Unknown Mortal Orchestra. Rientrano tra i tuoi ascolti?
Assolutamente sì, così come Flume, Jon Hopkins e anche i Daft Punk. L’ultimo vinile che ho acquistato però è il primo dei Neu.
Spazio per sonorità appare un disco assolutamente inedito rispetto al tuo percorso precedente, soprattutto se penso ai tuoi esordi. Nel nuovo live cosa rimane del tuo passato? C’è qualcosa dei tuoi lavori precedenti in cui non ti riconosci più?
Guardare le foto degli anni passati fa sempre il suo effetto, si piange e si ride allo stesso tempo. Considerato che nei miei primi due album rappavo più di quanto cantassi, sicuramente qualche valigia me la sono persa durante il viaggio e non sono tornato indietro a raccoglierla. Il nuovo live è incentrato soprattutto sulle nuove sonorità di Spazio, ho aggiunto un tastierista di ruolo nella formazione e anch’io sto spesso dietro a un piano elettrico, solo in pochissime canzoni imbraccio la chitarra; però abbiamo rivisitato alcuni brani del passato per adattarli a questo nuovo ensemble, e i risultati sono stati sorprendenti. Certe canzoni sono come le Barbie, gli puoi cambiare il vestito un sacco di volte ma il gioco rimane lo stesso.
Il disco ha il grande merito di essere un’opera pop: i brani si lasciano cantare e conquistano sin dal primo ascolto. Cos’è il pop per te?
Quando una canzone riesce a parlare al cuore, non dico di tutti, ma di molti, allora è una canzone pop ben riuscita. La grande magia del pop è che riesce ad essere profondo attraverso la leggerezza, può dire verità in cui l’ascoltatore riesce a rispecchiarsi senza starci troppo a pensar su, è istinto e libertà.
Il tuo EP La metro C in che modo ha fatto da ponte rispetto al nuovo album? Tra parentesi, dici che riescano a finirla prima o poi?
Ecco, con La metro C il discorso era leggermente più ambizioso, ho parlato molto per metafore per arrivare al punto, e parlare della miseria d’animo umana non fa sembrare una canzone molto pop. Ma c’è un momento per tutto, giusto? I lavori per la linea C in teoria sono quasi finiti, ma fintanto che non la collegano alle altre due linee non serve quasi a niente.
Un tempo c’era una decisa impronta politica nella tua musica (penso anche alla tua vicinanza a Beppe Grillo agli inizi). Oggi invece non ve n’è più traccia e nei tuoi testi dominano le relazioni, i sentimenti, la quotidianità: non ti interessa più la politica in senso lato?
La politica mi è sempre interessata, e credo che nei rapporti sociali e nei sentimenti ce ne sia tantissima, solo che è in una forma diversa. La mia collaborazione con Beppe Grillo risale oramai al 2004, e se avessi minimamente sospettato che da un blog interessante avrebbe poi fondato un partito politico non avrei mai scritto una canzone sull’argomento. Oltretutto hanno utilizzato il mio brano (Un grillo per la testa, ndr) molto spesso nelle loro riunioni di piazza senza dichiararlo in SIAE, non ho percepito quello che mi spettava. Da qualche anno sono molto più interessato alle sfaccettature dell’animo umano e ai piccoli dettagli della quotidianità.
Oltre ai Battisti e De Gregori a cui spesso sei stato accostato o a cui hai dato tributo, tra i padri nobili del cantautorato a cui ti vedo vicino citerei anche i romani Venditti e Baglioni che, grazie anche ad altri nuovi progetti (Thegiornalisti e Massaroni Pianoforti su tutti), sembrano essere tornati in auge tra i riferimenti di molti, dopo un periodo in cui sembravano quasi dimenticati.
Non possiamo assolutamente dimenticare autori di questo livello; Baglioni secondo me è stato uno tra i più grandi di sempre e Oltre è un’opera di valore sconfinato, sia per i testi che per le melodie ricercatissime. Anche Venditti mi è piaciuto un sacco, è riuscito a passare da canzoni molto impegnate a hit superpop da classifica, uno tra i pochi a fare dreampop in Italia. Questa nuova scena di cantautori non è da meno, a Tommaso Paradiso dico sempre che se Promiscuità fosse uscita negli anni ’80 si sarebbe potuto comprare 2 appartamenti al centro di Roma.
Con il progetto Lato B hai appunto rinnovato il tuo tributo a Lucio Battisti. Quanto è stato importante per te e perché hai deciso di omaggiarlo così?
Per pura passione. Per caso mi sono trovato due anni fa ad una festa su Battisti che si faceva in un club di Padova, a suonare insieme a De Rubertis, Dario Ciffo e Lino Gitto: la scintilla è scattata subito, sembrava che suonassimo insieme da anni. Così abbiamo deciso di farci qualche giro nei club e divertirci a risuonare queste canzoni incredibili; che poi Battisti non ha in pratica mai fatto concerti, e invece certe canzoni come Insieme a te sto bene o Ancora tu sono perfette per un gruppo rock. Ci siamo fatti prendere la mano e abbiamo anche risuonato per intero tutto Anima Latina, ma lì eravamo in 16 sul palco.
Anche per ragioni anagrafiche rappresenti un ponte tra la cd. Scuola Romana di fine anni Novanta e la nuova “scena romana” (per quello che possono significare queste etichette). È un ruolo che senti tuo o a cui comunque senti una qualche appartenenza?
Quando ho pubblicato il primo album LP era esattamente il periodo storico in cui le grandi case discografiche iniziavano ad entrare in seria crisi, Myspace andava fortissimo, Rockit non esisteva ancora così come Facebook. Era difficile farsi conoscere senza passare attraverso i media tradizionali, e successivamente con l’avvento di nuove forme di comunicazione che giustamente avevano tutto l’interesse e la voglia di promuovere realtà nate con loro, quelli della mia generazione si son ritrovati a rappresentare un indefinito “prima” non troppo classico ma neanche abbastanza attuale per essere di moda. Insomma, siamo rimasti in mezzo per un bel po’. Con il tempo però questa situazione di stallo si è appianata ed essere del 1978 ha mostrato i suoi vantaggi, mi ha permesso di dialogare e collaborare con realtà musicali precedenti e successive alla mia; per farti un esempio, nel 2004 ho scritto Vorrei cantare come Biagio insieme a Simone Cristicchi, ieri sono stato invitato dai Thegiornalisti a suonare con loro al concerto del Pimo Maggio.
In Arnesi parli di manutenzione dell’amore: in che modo si può coltivare e mantenere solida una relazione umana secondo te? Sono discorsi che possono valere egualmente anche per la musica?
Ho sempre pensato che con l’impegno e la dedizione si possano ottenere risultati importanti nella vita, tanto negli affetti così come nel lavoro. Non è una garanzia, ma senza un’applicazione quotidiana è difficile fare strada. E Arnesi parla un po’ di questo, mi sono immaginato come un addetto alla manutenzione della sua storia d’amore, che con vari attrezzi metaforici fa di tutto per tenerla pulita, solida e duratura. Provare a far funzionare una storia d’amore somiglia molto al percorso che si fa quando si scrive una canzone; la canzone si svela in qualche modo, arriva all’improvviso, come l’amore ti può prendere alla sprovvista, ma poi sta a te curarla nei particolari, la puoi rendere più bella, vestirla in tanti modi diversi, e per farlo ti servono gli arnesi giusti.
Sei tra i fondatori del Roma Folk Fest, che ora ha allargato i suoi orizzonti anche oltreraccordo. Quali sono i prossimi progetti in tal senso? E per quanto riguarda la tua etichetta Gas Vintage?
Folk Fest è nato come un esperimento circa 3 anni fa, con i miei soci abbiamo pensato di creare un festival itinerante che presentasse nelle varie città la nostra idea di “buona musica”. Il bello è che abbiamo riscosso molti consensi e siamo riusciti a portare Folk Fest dal piccolo club dove è nato a palchi molto importanti come quello di Villa Ada a Roma. Anche l’etichetta Gas Vintage Records sta dando pian piano i suoi frutti, gli artisti che abbiamo prodotto stanno tutti facendo dei percorsi molto interessanti; proprio in questi giorni Mimosa è finalista a Musicultura, i Discoverland (Roberto Angelini + Pier Cortese) stanno per uscire con un nuovo album, Al the Coordinator ha registrato un disco di una bellezza incredibile dagli echi country folk che sono certo farà parlare molto di lui.
Come ci si sente alla fine dei trent’anni, semicitando Motta?
Direi meglio che alla fine dei venti; quell’alone di disagio sembra ormai scomparso e a questa età si impara a convivere con ciò che si è, ci si guarda allo specchio accettando quei difetti che per anni ci hanno fatto soffrire. Mi sento nell’esatto centro della mia vita, so quello che faccio; guardando indietro vedo con chiarezza il punto da cui provengo, e guardando avanti il futuro non mi sembra più così confuso e incerto come era il futuro di 10 anni fa, arrivati verso i 40 ci si sente più fort(y)i.
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