Nel rap non dobbiamo attenerci a scrivere righe di un certo numero di sillabe, la lunghezza della riga è decretata dalla base (beat), che nel rap è rigorosamente fatta sui 4/4.
(Fonte: fare-rap.it)
Nel rap, come in altri generi musicali, esistono da sempre delle regole auree non scritte, frutto del retaggio culturale ma anche del passaparola di carattere provinciale, un’inevitabile caciara pseudo purista e pseudo intellettuale che si può ammirare nelle sezioni riservate ai commenti dei vari Social Network ma soprattutto di YouTube.
L’applicazione di queste regole viene rigidamente esaminata da appassionati random come in un tribunale inquisitorio, senza tenere minimamente in conto l’intenzione dell’artista. Se parliamo di rap, una delle più controverse e delle più chiacchierate in rete è sicuramente la regola dei quattro quarti.
L’argomento principale a sostegno della tesi consiste nel non considerare abili e/o degni di appartenere alla cultura di riferimento coloro che, a detta degli “esperti”, non sono sono in grado di andare a tempo. Insomma non sono in grado di reppare. Conclusione: non è rap.
Il rap ha più cose in comune con la poesia di quanto si creda. Prenditi del tempo per imparare a cantare in metri diversi e a comporre rime…
Se non riuscirai a cantare le strofe rimanendo a tempo e non imparerai a poggiare gli accenti sulle battute giuste, il tuo rap sembrerà rigido e innaturale.
Fonte: wikiHow.it
Ma chi l’ha detto che per essere un buon MC bisogna saper reppare a tempo? Dove sta scritto che il flusso vocale debba necessariamente combaciare con il metronomo del beat che lo accompagna ?
Di esempi che potrebbero tranquillamente confutare queste convinzioni ce ne sono di numerosi e non bisogna neanche andare a scomodare le realtà d’ oltreoceano. Nel 2006, Dargen D’Amico pubblicò il suo primo lavoro solista Musica Senza Musicisti (che dieci anni fa fu apprezzato da pochissimi). Tra le tante, una delle accuse più ricorrenti nei forum (Hotboards RIP) era proprio quella di non sapere/volere andare a tempo.
Proprio sul ribaltamento di uno dei presunti presupposti del rap si basa uno dei generi che sta attraversando un periodo di ascesa negli ultimi mesi: il drill.
Il drill è un sottogenere della trap, comincia a diffondersi nel 2010 nella Southside di Chicago ed è stato introdotto da rapper come Chief Keef (quello di I Don’t Like), Fredo Santana, Pacman e producer come Young Chop che finirà poi a produrre per Travi$ Scott, 2 Chainz, Booba, Pusha T, etc . Abuso dell’autotune, beat rallentati, tra i 60 e gli 80 bpm, influenzati dalla trap più cupa e liriche dall’ alto tasso di contenuti violenti, spesso gratuiti, talvolta inventate di sana pianta (come nel caso eclatante di Slim Jesus), una versione parodistica e not real del gangsta rap.
Su Wikipedia è disponibile una pagina che spiega passo per passo la sua genesi e gli artisti di riferimento.
Il boom mondiale della post trap e la conseguente rivisitazione delle varie scene europee ed americane hanno rimischiato le carte a tal punto da non poter quasi più distinguere la trap dal drill e viceversa. Molti degli artisti che sono saliti sul treno della trap hanno contribuito all’evoluzione dello stile e alla ridefinizione del genere.
Una delle fantomatiche caratteristiche del drill consiste nel rappare a schema libero anticipando il beat, creando così un “effetto fuori tempo”. Mentre nel resto d’Europa molti rapper stanno adottando questo stile senza essere al corrente probabilmente nemmeno della sua esistenza, in Italia il rapper genovese della Wild Bandana Tedua lo ha rivisitato rendendolo credibile, sottolineando per giunta la propria appartenenza al movimento nel primo estratto dal suo mixtape Orange County, in imminente uscita. Ad introdurvelo la traccia insieme a Sfera Ebbasta Lingerie che nel frattempo ha superato il milione di views.
Come Tedua altri rapper italiani (Enzo Dong, Izi, Dark Polo Gang, Rkomi etc) stanno adottando uno stile basato sulla rilettura della metrica classica, oltre ad adottare un’ estetica bizzarra fatta di maglie da calcio, cappelli da pescatore, piumini rosa imbottiti e moda contraffatta.
Non è neanche tanto facile e rilevante tracciare i confini delle rispettive intenzioni musicali e affibbiare un’ etichetta che possa rendere riconoscibile il sottogenere (il drill) di un sottogenere (la trap) di un già abbastanza bistrattato genere musicale (il rap).
Piuttosto, è curioso constatare come dei “venuti dal nulla” abbiano conquistato in poco tempo una fetta di pubblico importante, si siano imposti anche collaborando tra di loro e come le proprie crew si siano fatte conoscere affermandosi a livello regionale (Genova è diventata la capitale italiana della trap, da qui Drilliguria), arrivando ormai a tutto il territorio nazionale.
Tra gli oltre novecento commenti sotto al video di Tedua sono in tanti coloro che discutono di metrica, gestualità e di flow e a tratti è possibile leggere degli spunti davvero interessanti. Uno in particolare mi è saltato all’occhio e non è che la sintesi esaustiva del concetto del drill.
Morale: non tutto il male vien per nuocere.