Succede sempre così, ogni anno. Come un ciclo di racconti epici.
Il conto alla rovescia dall’annuncio della line-up, poi l’attesa trepidante nel mese di maggio, la notte precedente senza chiudere occhio. Una cosa simile mi capitava prima della foto del liceo, una specie di agitazione febbrile mista alla speranza di venire bene immortalati – perché quella foto era potenzialmente capace di fermare il tempo. Ero convinta che quella stessa magia fosse replicabile col Primavera Sound 2016, più che un festival, un’esperienza catartica. Un rito di rigenerazione capace di accoglierci nel suo grembo molle del Parc del Fórum per poi ricacciarci fuori stanchi morti ma – eccezionalmente – nuovi, puri, sciacquati.
Vi vogliamo raccontare la nostra esperienza. Sì, in quattro parole.
INVECCHIAMENTO
Il concetto più importante. La sedicesima edizione del Primavera ha una volto diverso e quasi con orgoglio mostra due o tre rughe di espressione che sono invero bellissime. Forse a parlare è la consapevolezza di chi ha già vissuto altre edizioni passate e con sguardo bonario culla le matricole 18enni che abbassano notevolmente l’età media del festival. Eppure l’impressione è questa: un senso generale di maturità. Un coming of age dilagante – e splendido.
A infondere questo improvviso senso di calma sono anche diversi acts che, sia per età anagrafica che per genere musicale, distillano in ogni spettatore un placido sorriso interiore. Basti pensare alla tenerezza di Brian Wilson capace di trasformare lui e al tempo stesso il pubblico in bimbi felici con tanto di palloncini (gonfiati personalmente su Good Vibrations e lanciati in aria insieme ai miei compari). E ancora la mindfulness del pianista ucraino Lubomyr Melnyk che lascia fluire interi torrenti di piano liquido e commenta, con pacatezza, ogni brano che andrà a eseguire. O ancora la figaggine di John Carpenter, un set retro-futuristico con bassi devastanti che ristabiliscono l’ordine e fanno tremare le gambine a Neon Indian.
Ma maturità vuol dire anche abbracciare la tradizione: Cass McCombs e Andy Shauf, ad esempio. Il primo è senza dubbio l’erede di Neil Young, il secondo è Elliott Smith ma tanto altro ancora (James Taylor, Harry Nilsson). Non è un caso se il suo concerto sarà uno dei migliori dell’intero festival. E’ quel folk che, a dispetto del titolo di questo paragrafo, non invecchierà mai. Sono melodie incredibili, arrangiamenti senza tempo.
Un capitolo a parte è da dedicare a PJ Harvey, una signora che non conosce la nozione di tempo né tantomeno di invecchiamento. Allo stesso modo la sua musica è qualcosa di antico e ancestrale, viscerale e atavico, sacro e profondo. Un’ora e quindici minuti che sfidano le lancette e danno l’impressione che il suo concerto, senza dubbio la vetta del festival, duri giorni. Eterna. E ditemi se non è magia questa.
DIVERSITÀ
Che sia un’edizione con un’aria diversa, beh, l’abbiamo percepito e scritto subito. C’è da dire che alla base del Primavera stesso c’è sempre stato un concetto di diversità in quanto ampio spettro di musicisti, con succose stravaganze difficilmente riscontrabili altrove. Seguendo il consiglio di David Bowie in Changes (turn and face the strange), non abbiamo voluto voltare le spalle agli acts più particolari del festival. Oltre a Lubomyr Melnyk, in Auditori abbiamo assistito al concerto surreale di Richard Dawson, cantautore scozzese diretto erede di Captain Beefheart. Nulla, proprio nulla di quello che ho visto e ho sentito in vita mia è simile ad un suo live: canti a cappella simili a litanie di marinai persi tra i ghiacciai, un suono di chitarra abrasivo e acido quasi cacofonico, una voce da cantore medievale. Un’esperienza totale.
Un’esperienza di inebriante gioia si può provare vedendo i Mbongwana Star, band del Congo con due vocalist sulla sedia a rotelle – che cantando muovendosi a ritmo. E qui si produce il miracolo: sulla loro musica, un ritmatissimo afro-beat, la folla non balla solo per loro ma paradossalmente CON loro, in un senso fortissimo di comunione. E’ un momento magico che si ripete, un giorno dopo, con Selda Bagcan, vera icona della musica anatolica di protesta degli anni ’70 nonché vero tesoro nazionale turco. Il concerto diventa subito la festa della comunità turca del Primavera. Accompagnata dalla band di Tel-Aviv Boom Pam, Selda parla inizialmente in inglese per poi abbandonarsi a intere conversazioni nella lingua natia con una giovane folla in estasi e in lacrime.
ACCELERAZIONI
3, 2, 1, 0. Liftoff. Un’altra immagine iconica è senza dubbio l’accelerazione. Non è un caso che il concept visuale di quest’anno sia una navicella spaziale (sempre per alimentare quella mitologia su Bowie, rincorso ogni anno dagli alti vertici del Primavera Sound). Il concetto, puramente soggettivo, è stato avvertito in modo particolarmente vivido in alcuni momenti del festival. Un aumento di velocità notevole si è registrato, per chi parla, durante il primo assolo di sax di Kamasi Washington. Ricordo bene di aver fatto un gesto con la mano: quello del decollo. L’Auditori, stracolmo, avrebbe potuto benissimo prendere il volo. Staccare i piedi da terra, aggrapparsi alle poltroncine. Un lancio nell’iperspazio.
O ancora i Beak>, un motore costante di batteria a 80 giri al minuto, martellante, presente. Il motore che si scalda, pronto al lancio, mentre la voce riverberata di Geoff Barrow sembra provenire da un torre di controllo.
Altro momento incredibile: la voce di Victoria Legrand dei Beach House. Mai così piena, mai così vibrante, mai così sciamanica. Qui il decollo è la scia dell’accelerazione: code strumentali (Space Song, Elegy to the Void) e vocali (gli allunghi sulla seconda strofa di Silver Soul, Take Care o ancora Myth). Un concerto che è per me il modello della loro musica: un’esperienza sessuale e carnale. E ancora, altre accelerazioni che sono distacchi o divari, manifestazioni di eleganza. Parliamo di Julia Holter. Un set bellissimo con un suono ricco che dà un giro alla Julia Holter vista sempre qui due anni fa. Come una promessa mantenuta.
PROMESSE
Il Primavera Sound è anche un festival di promesse. Promesse future, come alcuni acts freschi freschi: gli occhi da cerbiatto di Julien Baker, la potenza dinoccolata di Vince Staples che vince e convince (scusateci), un commovente Car Seat Headrest che accenna Paranoid Android, una Shura in odor di Madonna, un geniale e statuario Moses Sumney che suona già terribilmente classico. Ma ancora, soprattutto, promesse mancate: il concerto dei Radiohead. Lo stupore di ascoltare brani storici e vere chicche (2+2=5, Pyramid Song) viene ammortizzato a posteriori dalla percezione di aver assistito ad una perfetta, eppure freddissima, esecuzione. Nessuna emozione viscerale se non la bellezza della foglia ritrovata in mezzo ad un libro, che muove improvvisamente nostalgie e ricordi.
Sul finale, spazio alle promesse che si fanno al festival. Promesse di ritorni. Perché come le stagioni, il Primavera, di primavera, tornerà. E noi con lui, un anno di più.