In pochissimo tempo Mukanda Festival è diventato l’epicentro culturale del Gargano durante l’estate. Le ragioni? Una proposta musicale audace e riconoscibile, la cura per ogni dettaglio – dalla grafica alle location – e l’amore per il proprio territorio, quel legame che ha spinto alcuni fuorisede di Vico del Gargano a tornare in Puglia per dar vita al proprio festival dei sogni.
Tra i nomi dell’edizione 2016 – che si terrà a Vico dal 3 al 5 agosto – ci sono Larry Gus (da’ uno sguardo alla sua collezione di dischi), President Bongo e Nickodemus. Il programma, però, è ricco di tanti altri artisti, nonché di esibizioni visuali e di dibattiti.
Raffaele Costantino non ha certo bisogno di presentazioni. Giornalista, dj e producer, speaker radiofonico, dalla prima edizione è stato coinvolto nella direzione musicale di Mukanda ed è il principale fautore della corrente afrofuturista in Italia, fenomeno di cui il festival foggiano è sicuramente la manifestazione rappresentativa nello Stivale. Gli abbiamo fatto alcune domande per scoprire cosa si nasconde dietro all’organizzazione di un festival così originale.
Non è la prima volta che curi la direzione musicale del Mukanda Festival. Ci racconti come è nata la collaborazione con i ragazzi?
No, abbiamo iniziato insieme questo percorso, i ragazzi mi hanno coinvolto sin dalla progettazione della prima edizione che è stata davvero un gran successo.
Mi hanno contattato dei giovani laureandi che vivevano a Bologna e che volevano riportare indietro la loro esperienza nel loro luogo di origine. Un’idea romantica quanto contemporanea: mi è piaciuta subito.
Quali sono state le tue prime impressioni non appena hai messo piede a Vico del Gargano?
Sinceramente non ho colto subito la magia di quel posto la prima volta che l’ho visto. Qualche mese prima del festival sono andato a Vico a fare dei sopralluoghi e facevo davvero fatica a capire come dislocare gli eventi del festival in quei vicoli. Alla fine tutto ha preso forma ma soprattutto è stato l’entusiasmo degli organizzatori e di tutto il paese che ha reso tutto speciale. È stato un vero rito collettivo, complici la musica, l’aria che si respira, l’ambientazione quasi esoterica. Mi piace molto l’idea di festival pensati su misura per i luoghi in cui si svolgono.
Sicuramente non è facile organizzare un festival così audace nella provincia foggiana (e italiana in generale). Quali sono le difficoltà maggiori? In che modo secondo te gli sforzi di realizzare un’operazione simile vengono ricompensati?
Sì hai ragione, non è facile. Viviamo in un paese molto vecchio, governato a tutti i livelli da non-giovani. È difficile trovare amministratori pubblici che si mettano in gioco per aiutarti a superare la burocrazia asfissiante.
Nelle grandi città è più facile trovare amministratori illuminati, ma nei piccoli centri è molto difficile incontrare le persone giuste. I ragazzi del Mukanda (ricordo sempre che gli organizzatori sono loro, non io) hanno trovato e continuano a trovare mille difficoltà, e sinceramente non so se al posto loro avrei la forza di combattere queste battaglie, ma li invidio molto. Hanno qualcosa per cui combattere, hanno la voglia di dimostrare che le cose belle si possono fare ovunque e soprattutto hanno la forza di mantenersi fedeli alle loro radici senza rimanerne impigliati.
Il cd. afrofuturismo è la cifra stilistica principale del festival. Che significato ha per te questo termine?
Considero Afrofuturista, ad oggi, un movimento che parte dalla consapevolezza di un futuro culturale che non potrà più fare a meno della creatività del continente madre. Chiaramente si parla delle sue declinazioni più visionarie e delle sue capacità – ancora non del tutto espresse – di rendersi centro propulsivo di tutta la musica di matrice ritmica occidentale.
La musica elettronica, le poliritmie e le ripetizioni africane, le nuove ricerche in ambito filologico, sono elementi che mischiati tra di loro stanno creando le coordinate per un futuro musicale sempre più afrocentrico.
Ma per dar vita a queste evoluzioni non basta campionare delle voci e dei tamburi. È l’amalgama sonora che identifica la veridicità del suono.
Come approcci la scelta degli artisti da far esibire? Quali sono le tue linee guida quando cominci a pensare alla line-up?
La loro musica deve essere un mix tra gli elementi di cui parlavo prima, ma soprattutto deve avere la capacità di evocare il rito. Deve essere ritmica, psichedelica, a volte distorta, altre onirica.
In che modo cerchi di far convivere la parte musicale di Mukanda con il lato artistico-visuale e i dibattiti?
Viaggiano su binari paralleli, non mi preoccupo di incrociarli. Arte e parole sono curate molto bene da altre persone dell’organizzazione. A ognuno il suo.
Credi che ci siano altre realtà in Italia affini a Mukanda (se non per la proposta, quantomeno per attitudine)?
Certo che ce ne sono: alcuni esistono da prima e sono anche più consolidati, altri viaggiano sugli stessi binari. Penso al Dancity prima di tutto, al FRAC, Ortigia, Terraforma, etc.
Personalmente sono i festival che preferisco. Ho già organizzato grandi festival in grandi città e ne ho anche vissuti parecchi in tutto il mondo, da DJ , da “giornalista” ospite e da semplice fruitore. Adesso quella formula mi ha un po’ stancato. Se devo citare un modello internazionale, è il Worldwide Festival di Gilles Peterson a Seté in Francia.
Qual è la tua più grande aspirazione da direttore artistico del Mukanda?
Un Mukanda in ogni centro storico italiano.