1502 giorni. Millecinquecentodue.
Tutti noi –se siete qui, con ogni probabilità Channel Orange è parte integrante del vostro plasma– abbiamo atteso poco più di quattro anni perché arrivasse QUEL weekend: un lavoro audio-visivo, Endless, e l’album che tanto abbiamo bramato, Blond(e).
Millecinquecento giorni fa -come fosse ieri- mi sentivo al posto giusto: un giovane adulto spaventosamente talentuoso, ma terribilmente umano come Frank mi fece promettere che non mi sarei mai più perso. Mai. Mi consolò, perché l’amore non corrisposto è la religione peggiore, ma ci crediamo per sempre, a occhi chiusi; rinfrescò tensioni con mango, pesche e lime. Il blu era il mio colore preferito, fui costretto a cambiare idea.
Nessuno aveva mai indovinato un’estetica così precisa: un colore, un solo colore! E prima di tutto questo, il suono della prima, preziosa PlayStation: non siamo mai stati soli.
Certo, mi sono perso nuovamente; recidivo nella stessa religione, di nuovo il fascino del blu.
Regolarmente, però, trovavo stabile riparo in Orange. Cercavo di rintracciare la promessa di quell’estate, e d’un tratto mi trovavo a sigillarne altre: l’identità creativa di Frank Ocean mi si presentava innanzi ogni singola volta, carico di verità sempre nuove.
Ciò che rassicurava di quella palette sonora, capii, era il fatto che la sua arte possedesse l’unico attributo in grado di levigare i miei rimpianti: non poteva morire. Non solo non sarebbe mai finita; continuava costantemente a rigenerarsi e reincarnarsi altrove.
Tuttavia, la temporaneità delle sue lezioni -uomo infallibile rimanevo io, umano mortale restava Lui- mi portò presto a pregare per un nuovo album, o un segno di vita più chiaro di uno snippet in infima definizione. Ad alimentare l’impazienza, la pedante privazione di intimità cui sottoponiamo ogni invidiata celebrità, e a cui Cristopher Breaux -ora Frank Ocean anche all’anagrafe- si è sempre sottratto con eccezionale eleganza.
Numerosi gli indizi, numerose le delusioni: decine di artisti, nel giro di quattro anni, hanno fornito commenti estatici riguardo il futuro, probabile, possibile seguito al capolavoro arancione; poi tre lunghissime estati, ognuna con la promessa di un nuovo lavoro, ognuna estinta nel silenzio.
These bitches want niiiiiike… But the real ones.
— Lil Chano From 79th (@chancetherapper) July 31, 2015
La più eclatante delle suggestioni risale ad aprile 2015, quando il Tumblr di Frank Ocean -suo network prediletto- suggerì l’imminente pubblicazione di una doppia rivista e di un nuovo album.
Il disco non arrivò, e nemmeno il cartaceo ovviamente si palesò. Rimase però la pulce di quegli hashtag: per la prima volta si era manifestata l’evidenza fisica di un lavoro in corso -le pile di fascicoli- e quelle due versioni menzionate in didascalia dovevano -dovevano!- celare più livelli di significato.
“I got two versions” è anche il verso d’esordio della prima versione -divergente per un paio di tracce dalla copia fisica allegata alla rivista- di Blonde, l’album vero e proprio.
Inizia così Nikes, singolo che chiude definitivamente i quattro anni d’intermezzo e apre un nuovo, ancor più curato capitolo.
Il video di Tyrone Lebon -al solito cinematico, bruciato, e serenamente agitato- segue il flusso di pensieri delle voci, tutte di Frank, ma triplicate dalla manopola del pitch. È lo stesso trucco usato sistematicamente dalla sua vecchia casa Odd Future, oltre che da Madlib, A$AP Rocky, da 24hrs e da Alex G, il cui stile lo-fi sommerge ampie parti di Blond.
L’intonazione alta ha una forma quasi femminile, stride ma si fonde con la traccia vocale più grave. Il fotogramma d’anteprima del video raffigura proprio la sua sagoma scissa a metà, seppur magicamente consapevole. Le inquadrature volgono in egual misura alla pelle maschile e al corpo femminile, entrambi portatori di un fascino infrangibile.
La duplicità si estende ad ogni strato: Frank guida vetture da rally indossando l’eyeliner, e non per nulla il disco -maschile Blond in copia concreta, femminile Blonde in esclusiva nel catalogo Apple- è bi-titolato.
Quattro anni addietro, il conflitto cruciale aveva luogo tra solitudine e folla, quiete e calca: si migrava in un baleno dall’Antico Egitto al Tibet, dall’Arizona alla California. Aspirava a creare mondi più rosei del suo.
“Monks in the mosh pit
Stage diving Dalai Lama
Feet covered in cut flowers
They mosh for enlightenment”
Oggi, con gli svariati pitch a fare da feature, e le decine di artisti –Beyoncé e Kendrick su tutti, ma anche Tyler, James Blake e Jamie XX– accreditati e rimasti sullo sfondo, il nostro è intento a sperimentare sulle sue interiora, risistemando una bacheca di fotografie datate.
Nel suo magazine Boys Don’t Cry, tra gli altri contenuti, spicca una lista di brani fondamentali per il suo sviluppo estetico e sonoro.
Le uniche due tracce selezionate dal suo stesso repertorio sono le due metà di Solo, con cui ci ricorda con quale diritto sia divenuto così velocemente il più rilevante -se non il migliore- dei cantautori della nostra generazione.
Poche parole -si sentano i tremori istantanei che chiudono Wolves di Kanye, poi divenuti l’autonoma Frank’s Track– bastano a intrappolare tutto quello che abbiamo sempre cercato di dire, a riprova dell’altissimo rateo tra qualità e quantità della sua opera. Con un mixtape e un album all’attivo, già deteneva uno status mitologico, rafforzato dall’idealizzazione dell’attesa.
Ora, a pochi giorni dall’uscita, Blonde è già in cima a Billboard. L’album non è mai stato pre-annunciato, ma il silenzio ha agito da intelligentissima promozione dell’ignoto.
“Inhale, in hell there’s heaven”,
supplica un organo scordato. In un attimo disinfesta l’unico luogo temuto da tutti i geni, da tutti i maghi: un’altra opposizione, un altro felice pareggio. Ci sta rassicurando; è un vecchio amico saggio che conosce ogni cenno di noi. Ormai che siamo qui, nemmeno i fulmini possono colpirci. L’amore per se stessi -sorgente d’ogni cosa- si veste da crudelissima chimera, Solo si trasforma in So Low. La faccia parallela –Solo Reprise– parte proprio da questa omofonia. Frank esce dalla stanza, deve riflettere. Subentra André 3000, meraviglioso giullare senza corte. In Pink Matter, nel primo album, intagliava una strofa di malinconico ma pacato desiderio. Qui giunge al confessionale colmo di rimorsi, disegnando versi adatti solo ed esclusivamente ad un progetto creativo gigantesco.
Si tratta soprattutto -in qualunque istante, vicino o lontano- di pazienza.
Il tempo è amico ed avversario, nelle poche ore che separano Endless da Blonde convivono “I haven’t felt this way in years” e “that’s a pretty fuckin’ fast year that flew by”. Rushes To, in Endless, è una sequenza di dolorosi rimpianti trascinati sulle corde di Alex G, estensione dello stile autoriale di Ocean; Ivy è in precario equilibrio su chitarre bagnate, e l’occhiolino ai Cure si snoda solo nel finale, raccontando il crudele bisogno di una metà che ci completi -la mezza mela- per sentirci davvero vivi.
Solo sopportando il frangente di distorsioni tenebrose che divide Solo Reprise, si può giovare della liberatoria seconda parte: André ammette “After 20 years in I’m so naive”, per poi separare -di nuovo scissioni, di nuovo vuoti- in due versi il termine “im-pression”. Frank lo dice anche in Nikes, “We gon’ see the future first”: a noi, invece, spetta di aspettare. Quella cesura tra “rain” e “glitter”: è lì che si decide tutto.
Allo stesso modo, Pretty Sweet esordisce con un torturante discorso noise, per poi aprirsi in una traiettoria ritmica degna di The Love Below, a proposito di André 3000 e OutKast.
Nights -alter-ego della fastosa Pyramids– è composta di tre parti, di progressiva oscurità; il beat scarno della terza sezione è la rilassata ricompensa dopo un assolo di chitarra ridondante, a chiederci di restare in linea. Il flow a dir poco aggiornato -frasi dritte e frammentate- dimostra la fortissima matrice hip-hop, e non a caso Nikes omaggia i perduti Pimp C e A$AP Yams.
L’altro R.I.P. pronunciato si rivolge al ricordo di Trayvon Martin, ragazzino ucciso nel 2012 perché indossava un cappuccio.
Quantitativamente, non ha mai volto molta parte dei suoi testi a cause sociali, ma non ce n’è bisogno. Il suo timbro, la fatica che si tocca con mano, le voci che si sovrappongono: la storia afroamericana si rinforza, rigenerandosi più consenziente che mai.
L’argomento cardine -partenza di ciascun sentiero di ragionamento, fonte di emozioni chiare e scure- è la sua sessualità. Complessa, criptica, ma profondamente libera, spunta sbiadita ma con forza spiazzante. Gli “in-between spaces”, gli angoli dimenticati: questo è il mondo reale, la normalità è lì.
I riferimenti espliciti alla queerness –Paris Is Burning come pietra miliare- hanno significati ancora più densi in virtù della lettera pubblicata nel 2012 su Tumblr.
Dopo aver urlato alle nuvole, pregato per una manna lontanamente simile ad una spiegazione, Frank aveva dovuto affrontare vis-à-vis i sentimenti che gli tempestavano la spina dorsale,quelle farfalle imbestialite. Nella lettera, confessò che il suo primo vero amore era stato un uomo. Quella contro il cuore, si sa, è una battaglia persa in partenza. Finì per ringraziarlo, il cielo. Per questo l’isolamento, per questo il rispetto per il dio Crono: il coraggio di non mentire a se stessi, prima di ogni sorriso sprecato, prima di qualunque pianto, vigliacco o meno.
Ciò che è cambiato, nell’arte del nostro, è la distanza dalle metafore. È divenuto più etereo, più difficile all’esterno ma più diretto con l’anima di casa sua.
Endless è evidenza di tale processo di diluizione, finalizzato alla contemplazione del fallimento fino ad incanalarlo in un processo positivo.
Malay, producer e regolare collaboratore di Ocean, ha chiarito così la posizione dell’amico:
“Art cannot be rushed. It’s about making sure that the perfect aesthetic for the situation has been reached, to do that, takes constant tweaking, trial, and error.”
In un’era ossessionata dalla gratificazione istantanea, il ventottenne si fa opportuno portavoce di un’alternativa con cui meritiamo di (ri-)scontrarci. La clip di Endless -preceduta da un giorno di streaming sostanzialmente muto- impegnato nel lavoro srupoloso per eccellenza, la carpenteria. Serve tempo per immergersi nel video, occore calma per entrare nei testi. L’esito del lavoro consisterebbe in una scala a spirale, noi vorremmo una costruzione rettilinea, un passaggio dritto al traguardo, ma il punto è proprio questo: tornare a casa per la via più lunga, pur di passare quel campo di fiori che tanto ci rasserena.
La traccia kraut-techno che apre e chiude Endless -opera circolare, come suggerisce il nome- è del fotografo Wolfgang Tillmans. Stona con i minuti circostanti, ma il concetto è calzante: la tecnologia è talmente rapida da superarci -nell’ultimo verso, un fantomatico robot inizia a parlare la propria lingua- e doppiarci, ma noi risiediamo al suo interno. Ecco il senso di alcune presenze sparse tra i due dischi: la natura contraddittoria di una giungla quale il web costituisce la vera e propria sostanza di artisti come Yung Lean, Lil B e Arca.
L’unica maniera per esistere, resistere e rimanere è calcolare. Calcolare, inventare e ricalcolare.
La musica pop è sempre stata una questione di matematica: come vendere una quantità x, come raggiungere y ascoltatori, come riempire z posti a sedere.
Frank dimostra che anche per innovarla serve una buone dose di calcolo. Ha contato i dischi necessari per risolvere il suo contratto con Def Jam e n’è uscito, fondando implicitamente la sua etichetta Boys Don’t Cry.
A lui basta pensare, e pensare come vuole lui.
È combattuto, tormentato da eterni dualismi.
È un individuo, un giovane: probabilmente anche lui, come noi, ascolta King Krule e Lil Yachty, Prince e Young Thug.
Parte di lui modella pacificamente il legno, parte di lui trucca auto metallizzate: se non si può controllare il tempo, portiamolo agli estremi.
Frank Ocean riposerà sempre nella virgola tra la distante Nostalgia e l’imminente Ultra.
Proprio lui, proprio ora, mi ricorda che i maschi piangono, eccome:
“Some nights you dance with tears in your eyes”, ecco.
Al bar, la mattina del 21 agosto, il mio caffè era macchiato di lacrime fittissime. Gli anziani mi lanciavano occhiatacce, che ci fa un uomo senza corazza?
A me non importava assolutamente; lì ero solo, solo io.
Tremavo come fosse la recita di mio figlio, fiero di condividere il pianeta con quella specifica serie di eventi.
Lentamente si delineò la verità, semplice e candida:
non era lui che aspettavo,
aspettavo me.
Everybody needs you,
Everybody needs you.