Helsinki non è propriamente una città scandinava e, tolta l’evidenza geografica e un costo della vita decisamente più alla portata di portafogli, ad attestare questa affermazione è una non del tutto implicita tensione tra spinte occidentali e spinte orientali che si cela nelle architetture, nella cucina e nelle tradizioni della figlia del Baltico. Eppure, ad accostarla alle città svedesi e norvegesi non è solo la segnaletica bilingua (finnico-svedese), ma anche i suoi standard di vita, il clima e – perché no? – la presenza del Flow, terza manifestazione del cartello dei festival nordici comprendente l’Øya di Oslo e il Way Out West di Göteborg. Tra i tre, che condividono una linea ibrida e conforme ai trend che dominano il mercato festivaliero, il Flow è sicuramente la manifestazione dal taglio più ampio e generalista, ma non per questo priva di stage dalla forte identità come il The Other Sound, teatro delle esibizioni più sperimentali, o il Bright Balloon 360° Stage dall’impronta più jazz/world.
Il festival ha sede nei pressi di Sörnäinen, ampia zona industriale urbana ora riconvertita in polo culturale, dove ad averci accolto è stata un’imponente centrale elettrica. Le sue ciminiere presidiavano il gate d’ingresso, ultimo baluardo prima di immerci nel vertiginoso contrasto tra i colori accesi degli allestimenti e dei murales, e la scala di grigi dei reperti di archeologia industriale presenti nell’area. A segnare un ipotetico centro di quest’ultima: lo scheletro di lamiere di un gasometro, visibile da quasi ogni angolo del festival e disposto a ridosso del main stage, l’unico palco – insieme al Bright Balloon 360° Stage e il Resident Advisor Backyard – ad essere completamente outdoor. Nonostante questa pecularietà, l’organizzazione del festival ha deciso di predisporre un pit in cui il fumo fosse vietato, a causa del tabagismo imperante degli autoctoni; da noi (un fumatore e un non fumatore) non avvertito, ma un vero e proprio supplizio per il pubblico straniero secondo passate testimonianze. Il pit imponeva oltretutto il divieto d’introduzione di cibi e bevande, allontanando così una fetta di pubblico che ha preferito qualche metro in meno per una birra in mano. Una condizione che ci ha permesso di godere di un comfort eccezionale ed inatteso, persino durante le performance di punta, emancipandoci dall’assillo di ogni macrofestival: quello di arrivare in tempo per una posizione dignitosa. Effimeramente però: tutt’altra sorte ci è infatti toccata negli altri stage e in particolare al Lapin Kulta, tensostruttura che rivestiva il ruolo di palco comprimario, dove l’amore dei popoli nordici per il synth pop si è palesato apertamente. Qui, CHVRCHES e M83 hanno convogliato pletore di fans sotto l’enorme tendone, imballandolo e negando a noi ogni possibilità di accedervi. Relegati così più volte al varco come timidi voyeur, abbiamo ridotto la nostra permanenza in questo stage a fugaci comparse, premiate comunque dalla nostra tempestività nel sopraggiungere durante l’esecuzione di grandi classici, da quelli contemporanei come I Know There’s Gonna Be (Good Times) di Jamie XX, a quelli storicizzati come Blue Monday dei New Order.
Quest’ultimi, al Flow insieme ad un corposo assembramento di leggende musicali, sono però risultati imbolsiti e meno coinvolgenti rispetto al fervente Morrissey, o anche solo allo schizofrenico Iggy Pop. Un angolo di storia che ha fatto da contraltare alle nuove leve che hanno dominato il festival: dallo show al fulmicotone di Stormzy, dove – dopo un appropriato djset di warm-up – abbiamo potuto appurare la caratura e il carisma dell’alfiere del grime, ai beat contagiosi di Kaytranada: due set con i quali abbiamo rispettivamente inaugurato e congedato la manifestazione finlandese. In mezzo: gli intensi inni ambient di Ian William Craig, l’algida performance di FKA twigs e il sommesso live dei Massive Attack, sul palco accompagnati dal consueto comparto visivo e dagli Young Fathers, che con il loro cameo hanno ridotto ulteriormente una setlist già di per sè striminzita. E ancora: l’ipnotica cassa in quarti dei Voices From The Lake, il solido show del progetto Poweplant di Shackleton e i due antipodi dello spettro pop, Sia e ANOHNI, autori – con le dovute differenze – di due show fortemente concettualizzati ed estetizzati.
In definitiva il Flow ha stupito per la suggestività della venue, l’accoglienza (la città si è mobilitata per l’occasione) e la cura dei dettagli (soprattutto delle attività a corollario del programma musicale, come la vastissima area food), così come ha ha sorpreso – questa volta in negativo – per alcune falle di produzione che, unite al sovraffollamento di questa edizione, hanno scaturito spiacevoli disguidi. Primo fra tutti, la totale impossibilità di accedere al Bright Balloon 360° Stage – motivo della nostra assenza durante le performance di Thundercat, Kamasi Washington e Ata Kak – a causa del concepimento della sua struttura, la cui unica entrata conduceva il pubblico direttamente a ridosso del palco invece che sugli spalti su cui si doveva spalmare. Risultato? Inestricabili ingorghi. Più ilare invece è stata l’evacuazione delVoimala per un allarme incendio scoppiato durante il djset di Arca che, nonostante l’accaduto, ha continuato a suonare davanti ad un pubblico recalcitrante al consiglio – sì, si è trattato di un consiglio – dei pompieri di abbandonare lo stage. Si è trattato quindi di uno show così incendiario? Assolutamente sì, ma solo metaforicamente: era colpa di un contatore.