La scorsa settimana abbiamo ascoltato “Forever More”, il nuovo singolo degli M+A che ha anche un fluttuante video scritto e diretto da loro.
Ci siamo fatti raccontare qualcosa in più sul nuovo album, sulle piante e sul pop italiano.
Anyway Milkyway ha camminato un po’ ad occhi chiusi su una strada spianata dal precedente These Days: i 4 brani contenuti dell’EP sono stati quasi un sequel del primo lavoro. Cosa aspetta, invece, al nuovo album? Quali percorsi sterrati?
Il cambiamento principale è che abbiamo deciso, dopo anni di prove e collaborazioni, di produrre tutto da soli. Facevamo dei gran tentativi e alla fine ci siamo resi conto che ci serviva semplicemente più tempo per arrivare dove volevamo, che non servivano esterni per farlo. Non saprei. Sarà l’estremo di tutto quello che abbiamo fatto finora: un disco molto eterogeneo, dove si passerà da brani super pop, ad altri un po’ più matti dove verranno fuori anche le nostre tonalità un po’ più hip hop e jazz
“Everything will be alright” e “Forever More”: c’è una ragione per cui proprio a questi due singoli sia stato dato il compito di introdurre l’album?
In realtà no. È più una questione tecnica, di tempo. Erano gli unici due brani che avevamo salvato e deciso di tenere dopo una prima mandata di scrittura. Erano due brani su cui avevamo perso molto tempo, per ognuno di questi alla fine eravamo arrivati ad avere tre o quattro diverse versioni e produzioni masterizzate. Una di queste era stata fatta dal produttore americano Larry Dvoskin, con MGMT – che chiaramente alla fine non abbiamo tenuto. Così abbiamo deciso di fare uscire comunque la nostra versione, anche se non perfetta come produzione. Rimangono i due brani su cui abbiamo provato diverse combinazioni e, alla fine, abbiamo deciso di farli uscire, anche un po’ per liberarcene ed uscire da quel vortice di insoddisfazione perenne che normalmente si crea quando passi troppo tempo su un brano.
L’artwork, in entrambe le copertine dei singoli, ricrea spazi artificiali, statici, oltremoderni, in cui ricorrono alcuni elementi, come le palme, le luci al neon e, soprattutto, le scale. Perché?
Ci piaceva l’idea di un artwork che avesse come questione quella dello spazio, di un luogo, virtuale, più che artificiale, forse perché viviamo così ogni nostro singolo pezzo: una stanza dai contorni non troppo definiti, in cui si abita per un po’.
In Italia, secondo vostre dichiarazioni, ci si muove con molta fatica verso il pop di respiro internazionale – cosa che, al contrario, rappresenta uno degli obiettivi principali del vostro lavoro. C’è qualche artista italiano che vi fa pensare di essere meno soli in questa battaglia?
In realtà, prima degli artisti spesso ciò che ti fa sentire solo è la mancanza di strutture e persone che dovrebbero essere presenti negli step precedenti. Non lo dico a caso, o per evitare di parlare di musicisti italiani, ma perché il problema non è solo dei musicisti: è un rapporto di domanda-offerta che tocca anche i produttori, sound engineer, gli studi: è una ragnatela. E molte volte la mancanza di qualità nel pop italiano è dovuta anche all’inesperienza di molte strutture a gestire le produzioni pop. La produzione della maggior parte dei pezzi pop italiani che passano in radio dice già tutto. Ci sono molti tecnici e produttori preparatissimi in Italia, ma spesso quando si tratta di fare del pop – se paragonato alle produzioni pop inglesi-americane – spesso manca il tatto e il gusto nel gestire la produzione, l’arrangiamento, le voci, e così via. Noi molte volte dobbiamo fare tutto in casa da soli non solo per scelta, ma perché le alternative valide non sono poi così tante. Quindi, se proprio devo risponderti, ciò che ci fa sentire un po’ meno soli sono quasi più le persone con cui lavoriamo: Andrea Suriani, che è il sound engineer di Alpha Dept. che ci segue a Bologna, e Riccardo Damian che è il sound engineer di Mark Ronson che ci segue a Londra.
Nell’immaginario collettivo, gli M+A scrivono, registrano, respirano e lavorano attaccati a delle palme. Nella vita vera, invece, come e dove si è sviluppato il processo creativo di quest’ultimo lavoro?
In posti orribili, decadenti, piccoli due metri per due, certe volte, altre in studi, a Bologna, Londra e Brooklyn, per questa prima parte di scrittura, altre a casa, dove ci sono le piante, effettivamente.
A breve partirà anche il tour e il 9 ottobre sarete live alla Biennale Musica di Venezia, per la sessantesima edizione del Festival Internazionale di Musica Contemporanea. Che set ci aspetta?
Ci stiamo ancora lavorando. Non sappiamo neanche noi cosa ci aspetta. Diciamo che è il punto di incontro tra il vecchio set e quello che vorremo portare in giro una volta uscito il disco. L’idea è di portare alla Biennale – dove c’è un gran da fare sui concetti artistici – qualcosa che invece di dover essere esaminato o giudicato debba essere vissuto direttamente saltando e sudando.