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Nella musica di Kamasi Washington si incontrano stile, urgenza, innovazione e talento allo stato puro formando una miscela vitale, ribollente, altamente esplosiva. Il suo arrivo sulle scene, spalleggiato dalla label Brainfeeder e dal suo fondatore Steven Ellison aka Flying Lotus, è stato fulminante. Dopo anni di gavetta passata a supporto di tanti grandi del panorama statunitense -da McCoy Tyner a Snoop Dogg passando per George Duke- il suo album di debutto “The Epic” si è subito imposto -anche per il suo sapore di rivalsa- e lo ha reso immediatamente amatissimo da critica e pubblico, esponendolo però anche alle critiche di una frangia di puristi del jazz, proprio coloro che lo stesso Washington chiama in causa, quasi con atteggiamento di sfida, in Change of the Guard, brano iniziale del monolitico, intenso e bellissimo triplo album.
Durante l’interminabile tour che lo sta portando in giro per il mondo a presentare la sua musica, il trentacinquenne saxophonista californiano ha anche trovato, tra un concerto e l’altro, il tempo per affrontare una serie di impegni promozionali. Ed è proprio nel corso di questi che DLSO ha avuto l’onore di scambiare con lui quattro chiacchiere telefoniche. L’artista si è rivelato cordiale ed affabile ma allo stesso tempo attento nella scelta dei toni da usare per rispondere alle domande dell’emozionatissimo, ed ancora un po’ incredulo intervistatore. Un’occasione comunque più unica che rara per poter parlare con un artista già entrato negli annali del jazz -e non solo, visto l’importante ruolo da lui svolto nella realizzazione dell’ormai classico To Pimp a Butterfly del rapper Kendrick Lamar– e da quale ci aspettiamo ancora davvero grandi cose.
So che sei impegnato in un giro di concerti molto intenso. Mi stavo chiedendo se ti capita mai di sentire la mancanza dei tempi in cui potevi esercitarti in solitudine. Se ti manca la sensazione che si prova a suonare per ore, per conto proprio, senza venire interrotto e senza nessuna preoccupazione:
Oh sì! Sono decisamente più indaffarato di quanto non sia mai stato in tutta la mia vita al momento, e cosi mi posso solo esercitare tra i soundcheck ed i concerti.
D’altra parte, immagino che per te si stia avverando un sogno. Stai vivendo la vita da musicista che credo tu abbia sempre immaginato. Suoni in giro per il mondo, promuovendo un disco che da subito è stato definito come un capolavoro:
Sì! È quello che ho sognato per tutta la vita, fin da quando ero un ragazzino…
Riascoltando il tuo album “The Epic” stavo pensando a come -se paragonato con la gran parte dei dischi jazz che escono di questi tempi- il disco si distingua per l’audacia che trasmette, sia per la sua lunghezza e l’ampio respiro che per la sua fierezza e la sua veemenza. È anche un disco che pretende molto all’ascoltatore, lo afferra e ne pretende la completa attenzione. Quando ascolto Change Of theGuard -il modo in cui la band attacca il tema principale- mi viene da pensare alla sfrontatezza ed alla potenza delle prime battute di Straight Out Of Compton. Era nei tuoi piani realizzare un disco di questa portata?
Certo! Avevo in mente di realizzare proprio qualcosa di quel tipo. Volevo che la musica desse l’impressione di qualcuno che cerca di passare attraverso una barriera sfondandola. In particolare, ho scritto quel brano per una generazione di musicisti di Los Angeles, musicisti come mio padre ed i suoi amici, che non hanno mai avuto la possibilità di esprimersi raggiungendo il mondo intero.
Non eri spaventato dalla “grandezza” del progetto?
No, non lo ero. È stato divertente riunire tutti i musicisti che vi hanno partecipato per lavorarci assieme.
Ho letto che questo disco è stato prodotto come parte di un progetto più ampio in cui tu ed altri musicisti tuoi amici, vi siete trovati a lavorare collettivamente ai singoli progetti di alcuni di voi. È così?
Infatti, abbiamo un gruppo musicale insieme. Inoltre, siamo cresciuti assieme, ci conosciamo da quando siamo ragazzini ed abbiamo una sala nella quale ci troviamo per lavorare insieme. Abbiamo tantissima musica che vogliamo far ascoltare in giro per il mondo e così abbiamo deciso di prenderci un mese di tempo per concentraci tutti assieme sui singoli progetti musicali da alcuni di noi. È stata una cosa importante da fare, ma anche difficile.
Trovo che sia un modo molto interessante di lavorare, ed anche molto bello per la generosità che dimostra:
Credevamo gli uni negli altri. Eravamo a conoscenza in maniera reciproca dei nostri sogni e della nostra musica e per questo avevamo anche il desiderio di lavorare assieme. In quel momento non stavamo usando i nostri talenti per nessun altro se non per noi stessi ed i nostri progetti. Abbiamo riunito le nostre forze per congiungerle nello sforzo di aiutarci in maniera reciproca a superare le sfide che ci si presentavano davanti.
Quando dici “noi” intendi anche il tuo amico di infanzia Thundercat, vero?
Sì! Lui stava lavorando alla promozione del suo album, perché aveva appena fatto uscire un suo disco in quel periodo. Ha suonato in alcuni dei miei brani, in altre cose di suo fratello Roland Bruner, in altre ancora di Brandon Coleman. Non ha lavorato in maniera continuativa al disco, ma di sicuro lo ha molto ispirato. Quando è uscito The Golden Age Of Apocalypse, ne siamo stati molto colpiti ed ispirati. Ci ha fatto capire che avevamo potenziale, che dovevamo dare il via al nostro progetto.
Suppongo che la Brainfeeder e Flying Lotus in particolare abbiano giocato un ruolo importante dandoti la possibilità di realizzarlo. Ci puoi raccontare che tipo di relazione hai con lui e la sua etichetta?
Fin da quando abbiamo iniziato a suonare assieme, ci siamo riuniti in un piccolo gruppo di collaboratori. Roland Bruner, Thundercat, Cameron Graves e me, ed il primo vero concerto nel quale ci siamo esibiti è stato per il John Coltrane Music Competition. In quell’occasione siamo stati anche dichiarati vincitori e quando Ravi Coltrane è salito sul palco per premiarci era accompagnato da un ragazzino, che poi si è rivelato essere Flying Lotus. Ed è cosi che ci siamo incontrati per la prima volta. Successivamente lui e Thundercat hanno iniziato a fare musica assieme, ed in occasione di una loro jam session siamo rientrati di nuovo in contatto. Avevamo una reciproca ammirazione. Nel 2010 mi ha chiesto se fossi intenzionato a realizzare un album per Brainfeeder. Fondamentalmente mi ha fatto fare quello che volevo. Mi ha lasciato libero di comporre e suonare la musica che volevo, e nei tempi che volevo. Mi ci è voluto un po’ per finire il lavoro, ma per lui non è stato un problema, quello che gli premeva era che fossi in condizione di elaborare la mia visione. La nostra collaborazione alla realizzazione di questo album è stato un processo molto armonico.
Pensi che Flylo e la Brainfeeder ti abbiano dato una libertà artistica che altre labels al contrario non ti avrebbero dato, cercando invece di portarti a fare dei compromessi?
Flying Lotus e la sua etichetta hanno una mentalità molto aperta. Il loro approccio verso i dischi che pubblicano purtroppo non è molto comune. Non ho veramente cercato di presentare la mia musica ad altre labels prima di loro, per cui non so come altri avrebbero reagito ma ho avuto sicuramente la sensazione che si trattava di una possibilità più unica che rara. È stata una vera benedizione.
Mesi fa il nostro sito ha avuto il piacere di intervistare un altro artista Brainfeeder, ovvero Jameszoo. Dal momento che ha realizzato un album molto influenzato da certo jazz, ma senza avere un background tradizionale e degli studi specifici, in quell’occasione gli chiesi come si comporta quando si trova a confronto con i puristi del genere. I tradizionalisti, quelli che in “The Epic” tu chiami “I guardiani del cancello”. Mi piacerebbe chiederti la stessa cosa:
Quella è una mentalità che tende a mettere il carro davanti ai buoi. Le regole e le parole che vengono usate per descrivere la musica, i vari aspetti di essa… le cosiddette “tradizioni”, queste vengono comunque e sempre dopo la musica stessa. La musica viene per prima, poi arriva chi la ascolta e dice “Oh! Questa è una tradizione”. Per come la vedo io, la vera tradizione del jazz risiede nella libera espressione di se stessi, nella creatività, nel vivere il momento. Questo è il vero spirito, ed è da li proviene l’energia che alimenta ciò che un musicista suona, e se è questo quello che un musicista crea, che diritto ha qualcun’altro di dirgli che è sbagliato? Se ti esprimi per ciò che sei, se suoni la musica che rappresenta il tuo essere, la tua provenienza, e ciò che stai vivendo in quel momento, che diritto ha un altra persona di venire a dirti che quello che suoni è sbagliato? È semplicemente quello che è. Io suono musica che sento il bisogno di dover suonare. E questa comunica qualcosa alle persone che si presuppone ne possano cogliere il messaggio. E se tu non ne cogli il messaggio, è semplicemente cosi che stanno le cose. Non trovo che ci sia tutta questa importanza neI cercare di riprodurre quello che qualcun’altro ha già fatto in precedenza. Se è quello che si vuole fare, la cosa può anche andare bene, ma non ne vedo la vera necessità, non c’è davvero bisogno di copiare quello che già tutti quanti fanno. Credo che quanti la pensano così abbiano un idea sbagliata sulla la natura della musica e del jazz in particolare.
In questo senso mi sono venute anche in mente le tue collaborazioni con artisti della scena hip hop, Kendrick Lamar o Snoop Dogg per esempio, e dal momento che tu hai una formazione musicale di tipo accademico, classico, mi stavo chiedendo in che maniera comunichi con loro:
Musica e parole sono comunque suoni. Quando comunico con qualcuno che conosce la musica, pur non sapendo né scriverla e né leggerla e non avendo un tipo di formazione tradizionale, ma ha una sensibilità musicale -come nel caso di Kendrick o Snoop- non parlo in termini tecnici ma in termini musicali. Usiamo fare riferimento a certi dischi, ad esempio. Parliamo di musica in maniera più funzionale che teorica. E comunque, entrambi sono abbastanza aperti. Ti chiedono di fare una cosa in particolare, e sono in grado di dirti esattamente cosa fare. Funziona. È un po’ come quando si incontrano musicisti che non parlano la stessa lingua, la comunicazione funziona su un piano musicale. In fin dei conti anche la musica è una forma di comunicazione.
Mi sembra di ricordare di aver letto una tua intervista nella quale definivi Snoop come un band leader particolarmente severo.
No, non è che sia particolarmente severo. In realtà lui sente la musica in una maniera molto dettagliata. Ha una relazione molto profonda con la musica, ne ascolta di tantissimi generi diversi. E cosi, quando un musicista suona la sua musica, lui la vuole sentire suonata in una particolare maniera.
Tornando al tuo passato, so che hai auto-prodotto tre album, precedenti a “The Epic”. Mi stavo chiedendo se ci sarà mai la possibilità di ascoltarli, se magari verranno mai ripubblicati:
Il fatto è che, ai tempi in cui suonavo molto in giro, dopo aver registrato della musica mi era venuta anche voglia di farne delle copie da dare in giro, ad amici e conoscenti. Una volta poi, ho realizzato un disco che era stato pensato come un regalo per mio nonno, lui aveva chiesto espressamente un disco gospel-jazz. Ma lo voleva in un particolare stile, con canzoni gospel suonate nello stile di Miles Davis durante la sua fase elettrica. Cosi ho registrato il disco esclusivamente per lui, facendone una copia sola, ed improvvisamente ho scoperto che ne stava facendo una copia dopo l’altra e le stava regalando un po’ a tutti. Mi son trovato a pensare “Accidenti! Farei bene a pubblicarlo veramente!”. Ma penso che un giorno arriverò a pubblicare ufficialmente quei dischi, sarebbe interessante vedere l’effetto che fanno. Sono pure sempre anche quelli parte della mia vita.
Trovi che stare in tournèe sia vantaggioso per la tua creatività? E se sì, stai componendo nuova musica al momento, stai pensando a nuovi progetti?
In realtà ho appena composto un nuovo brano appositamente per un nostro concerto, per la nostra ultima data europea, parte dei BBC Proms. Lo suoneremo con un’intera orchestra, è una cosa del tutto inedita. Praticamente è nato lavorando sul bus che ci porta in giro per concerti. È naturalmente più difficile lavorare in quelle condizioni. Non c’è il tempo per concentrarsi, per entrare nello spazio mentale giusto, ma ci sono comunque riuscito. In tutto ho composto quattro o cinque nuovi brani negli ultimi tre mesi. Non è il mio periodo più produttivo forse, ma in compenso posso esprimere la mia creatività ogni sera, direttamente sul palco.
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