Il 19 settembre è uscito Slow Light, nuovo disco di Sonambient, per Megaphone Music.
Qui lo streaming integrale e il racconto traccia dopo traccia.
«La maggior parte dei brani di questo disco sono nati e si sono sviluppati in tempo decisamente circoscritto, ovvero durante le serate e nottate di due mesi estivi nel 2014, quando ho avuto l’enorme piacere di avere accesso libero a un bellissimo studio a pochi passi da dove abitavo a Torino.
I brani del disco quindi non riflettono diversi momenti della mia vita, ma sono nati o sono stati ispirati da quel particolarissimo tempo e ambiente.
Dentro lo studio c’era un po’ di tutto in termini di strumentazione (synth, drum machines, effetti eccetera), e il fatto di avere a disposizione questo fantastico parco giochi per un tempo limitato, è stato estremamente stimolante per me, tanto che lì ho finito e mixato i pezzi del mio disco precedente, Yonder, e creato la maggior parte di questo. È stata un’estate strana e straniante, passata in gran parte a produrre musica o a pensarci, in uno studio sotterraneo dove la luce rallentava e permetteva di vedere cose al di là della percezione quotidiana.»
The smallest part
È il primo pezzo composto per questo disco, e fin da subito sapevo che sarebbe stato la sua apertura; è uscito di getto in uno dei periodi in cui, ciclicamente, penso che la footwork sia tra gli stili musicali più geniali di sempre. Qui gioco con le forme ritmiche del genere, anche se non c’è traccia di 808.
Disappearing slowly
Qui stavo provando preset e impostazioni dell’Access Virus (un gran bel synth, per i non addetti) presente nello studio, e ho trovato questo bell’arpeggione piuttosto tamarro e ignorante, non potevo non farci un pezzo. Il sapore un po’ anni ’80 è abbastanza atipico tra i miei suoni, ed è solo vagamente mediato dal crescendo drammatico nella seconda parte.
Better never
I riferimenti non troppo nascosti del brano è la jungle virata verso altri mondi di Machinedrum del periodo Vapor city. Una prima versione era nata per un live fatto un paio di anni fa con un’arpista, durante il quale ci alternavamo a suonare, e io reinterpretavo o mi ispiravo ai brani che lei eseguiva, creandone di nuovi.
Early neon
Questo è l’intro di un brano che non mi convinceva completamente, ed è quindi stato scartato dal disco. Ho però recuperato questa parte perché mi sembrava mancasse un collegamento tra il brano prima e quello dopo, e funzionava bene come “ponte”. Vedremo se in futuro riemergerà nella sua interezza.
Don’t panic
È nato come pezzo di chiusura per i miei live dell’ultimo anno e mezzo, per molto tempo non ha avuto una struttura precisa ma solo un sacco di falsi finali e ripartenze, da tirare avanti all’infinito a seconda di quanto il pubblico è preso bene. È stato l’ultimo brano del disco ad essere finito, e l’ho mixato a casa del mio amico Mattia AKA Delta Club, perché ai tempi mi ero da poco trasferito a Londra e non avevo ancora con me i miei monitor. Grazie Mattia!
L’ispirazione iniziale è stato un live di Machweo: aveva questo finale bellissimo pieno di delay impazziti, davvero fantastico, e ho pensato che fosse un gran bel modo di chiudere i concerti. Spero solo di non avergli inconsapevolmente copiato qualche melodia, perché questo è uno dei miei pezzi che preferisco!
Il tocco finale l’ha dato il mio amico Ioshi, che essendo anche un super batterista, ha suonato gli hi-hats infondendo vita e groove al pezzo.
Erasing traces
Volevo fare un brano semplice, con un bel beat grezzo, una linea melodica chiara e pochissimi altri elementi, questo è quello che ne è uscito. Le varie percussioni e piatti che si sentono sono rubate da un disco di Davide Merlino pubblicato da Floating Forest, etichetta di musiche improvvisate e particolarissime. Una miniera di gran bei campioni, fondamentalmente!
La città è un ambiente ostile
Pezzo vecchissimo, forse antecedente al mio primo disco, e che ha subito moltissime riscritture, cosa abbastanza atipica per me. In qualche modo però ha trovato la sua strada in Slow light. La frase del titolo l’ho sentita dire da qualcuno, ma non ricordo se era una persona, un sogno o un film.
Embers
È per me il brano emblematico del disco, caratterizzato da beat forti e decisi, e melodie semplici ma emotive. E poi in studio c’era un bel clone della Tb-303, qualcosa dovevo farci!
Lower ground floor nostalgia
La nostalgia di quelle lunghe nottate passate in solitudine in uno studio sotterraneo, tra luci al neon in corridoi un po’ inquietanti, cavi da attaccare e staccare dal mixer, “lasciando in pausa il mondo fuori”, per citare qualcuno.
Grass in the suburbs
L’idea era quella di creare un brano come quelli di certa techno berlinese, alla Tobias, in cui trovi un ritmo ipnotico e un groove deciso anche senza avere un beat o una cassa dritta che supporti il tutto. Sul finale in realtà un beat ci scappa a dire il vero, ma ormai il pezzo è finito, e anche il disco.