Lo scorso 22 settembre il Jazz:Re:Found di Torino ha annunciato le date e buona parte della line-up dell’edizione 2016. Se quanto realizzato negli scorsi anni non fosse bastato, oggi il festival torinese si candida definitivamente al trono di miglior evento italiano nell’ambito della black music. Un cartellone che comprende Grandmaster Flash, De La Soul e Tony Allen, d’altronde, parla da solo.
Si preannuncia un’edizione esplosiva, sin d’ora curata nei minimi dettagli anche e soprattutto da Denis Longhi, direttore artistico del festival. In attesa che la rassegna prenda il via con la preview milanese dell’8 novembre – ospite Jacob Collier, in collaborazione con il neonato JAZZMI – lo abbiamo contattato per farci spiegare la scelta degli artisti, fare il punto sullo stato dell’arte della black music e scoprire di cosa c’è bisogno per realizzare un evento come Jazz:Re:Found.
Denis, innanzitutto complimenti per la line-up che state allestendo. Come vi siete mossi per selezionare gli artisti di questa edizione?
Per quanto possa sembrare paradossale, mi sembra si sia trattato di scelte obbligate. Negli ultimi anni, Torino è cresciuta esponenzialmente in termini di festival e si è specializzata soprattutto sull’universo della club culture con Club To Club. Nonostante ci siano territori di prossimità tra i festival – vedi Four Tet, Move D e altri artisti legati al dancefloor che abbiamo ospitato negli ultimi anni – l’esclusiva su quel mondo è la loro. Proprio per coerenza e per avere un’identità nostra le scelte di Jazz:Re:Found vogliono rappresentare l’iconografia della black music in tutte le sue sfaccettature. Il focus di quest’anno con Grandmaster Flash e De La Soul ci sposta anche verso l’hip-hop: un omaggio alla riscoperta di questi territori musicali operata in questi anni da realtà come Brainfeeder. Nomi come Thundercat, Kendrick Lamar o Flying Lotus sono complicati da portare in Italia per ragioni logistiche ed economiche, ma volevamo mostrare le radici di questa cultura. De La Soul in particolare è uno dei primi modelli di hip hop conscious che affonda radici nel jazz, capace di scrivere album che hanno creato un ponte tra passato e presente. Quest’anno poi ci siamo avvicinati come sempre alla contaminazione jazz – Yussef Kamaal e Gogo Penguin, in passato i Portico Quartet – e poco al clubbing da Resident Advisor.
C’è anche un salto nel continente africano con l’afrobeat di Tony Allen.
Tony Allen, nonostante suoni live, lo inquadro proprio nel contesto del dancefloor. Un altro modo di investigare il mondo della danza. Con Mr Scruff e Leon Vynehall indaghiamo l’universo della disco/house più vicino alla nostra identità: il primo è – insieme a Gilles Peterson – il sommo punto di riferimento del nostro modello di clubbing; Leon Vynehall mi ricorda molto invece i primi approcci di Bonobo, un suono molto delicato, cool e mai volgare.
Infine, invece del classico 4/4, ci sarà un dj-set piuttosto atipico dal pathos divertente dopo il concerto di De La Soul: sarà una sfida provocatoria da vincere, ma non posso dirti di più per ora.
E il sabato notte? L’anno scorso c’erano Theo Parrish e Moodymann.
Un’accoppiata perfetta e irripetibile.
Sul sabato notte ci muoveremo in ambito elettronico, senza sconfinare nel mondo della techno. Abbiamo due/tre artisti in via di definizione, sempre vicini allo spirito del festival. Le trattative sono molto avanzate, a breve annunceremo.
In sintesi, abbiamo cercato di fare un lavoro super-coerente, fornendo ai più giovani le fonti di questo suono e al contempo presentando i nuovi testimoni della scena.
Quali saranno le location?
Le due venue confermate sono Cap10100 e Spazio Q35 e stiamo valutando l’uso della Scuola Holden.
Il festival quest’anno omaggia John Coltrane.
Coltrane è l’artista che più ha ispirato l’identità di Jazz:Re:Found. Non sarà un tributo puramente grammaticale, ma piuttosto un percorso legato all’importanza spirituale dell’artista che ha sdoganato il concetto blindato di jazz per portarlo alla nostra dimensione. Il festival sarà il primo step di questo omaggio, che si protrarrà anche durante tutto il 2017 con vari contenuti, anche extramusicali.
Cosa ci dici della preview milanese?
Ci tenevo a poter vedere io stesso da vicino Jacob Collier, anche per scoprire com’è fatto il suo live da crooner tra jazz e nuovi suoni. Non potendo ospitarlo al festival, abbiamo deciso di proporlo a Milano insieme a JAZZMI e Ponderosa, co-producendo l’evento. Tra l’altro, lo scorso anno più del 50% degli avventori di Jazz:Re:Found veniva da Milano e volevamo quindi tributare in qualche modo il pubblico meneghino.
Come te lo spieghi?
Sicuramente Milano è l’unica città internazionale in Italia. A prescindere poi dal giudizio sulla riuscita o meno del festival, il nostro vuol essere un evento dalla visione internazionale. Il livello di curiosità del pubblico milanese è altissimo. Anche per ClubToClub avviene lo stesso: il 60% di chi compra il biglietto è lombardo. Torino è molto in salute dal punto di vista dei festival, ma sul clubbing numericamente è più debole fuori dai contesti più grandi. A Milano tra Tunnel, Wall, Dude, Rollover siamo su dimensioni superiori persino a Berlino, secondo me: è una delle capitali europee della club culture.
Ci sono realtà festivaliere affini a voi? A me viene in mente il Locus Festival.
JAZZMI a Milano è appena nato, ma diventerà una realtà molto vicina a noi, su cui costruiremo ancor di più un asse Milano-Torino dal prossimo anno. In Italia, nonostante abbia raccontato questo mondo in modo parziale, il nostro punto di riferimento è da sempre Elita: da sempre trasversali, da Villalobos a Mos Def, con un risvolto più pop rispetto al nostro. Il Locus è nostro partner e anche dal punto di vista di booking ci muoviamo quasi sempre insieme con dialogo costante: le nostre visioni musicali collimano al 90%.
Una delle situazioni più vicina a noi per spirito e intenti è il marchigiano Fat Fat Fat, legato fortemente al suo territorio. All’estero invece sono terribilmente affascinato da Afro Punk che concettualmente è proprio il mio festival di riferimento: un passo avanti a tutti dal punto di vista della comunicazione. Il periodo è quello giusto: con The Get Down e Vinyl la serie tv ha indagato le origini di tutto ciò di cui parliamo ora. Afro Punk è un’epifania totale di edonismo e costume che racchiude uno spirito inclusivo e coeso. Black pride incazzato, ma aperto anche ai bianchi.
Quali sono le difficoltà organizzate di un festival come Jazz:Re:Found?
La mia sensazione è che dopo anni siamo finalmente diventati bravi nell’impostare un calendario di lavoro idoneo e siamo riusciti a formare anche una mini-struttura organizzativa. Dalla scorsa edizione abbiamo fatto un salto, banalmente spostandoci da Vercelli a Torino. La vicinanza a Movement e Club To Club ci spinge poi a fare un lavoro professionale e all’altezza del contesto del nostro capoluogo.
Nel nostro caso, la difficoltà maggiore è raccontare ai brand il valore esperienziale e di indotto che l’associarsi a un festival come il nostro può dare. Si fa fatica a spiegare quanto un investimento su un evento come il nostro sia oggi molto più efficace rispetto alle forme pubblicitarie più tradizionali, soprattutto se abbinato a un festival che punta su una forte identità e sulla fidelizzazione del proprio pubblico.
Ora come ora, comunque, il format festival è sempre più inflazionato – in senso buono – e c’è tanto hype intorno al nostro universo musicale, da Lamar a Flying Lotus passando per Kamasi Washington. Siamo fortunati ad aver sempre curato questi contenuti e a poter renderli riconoscibili, anche in vista di quando sarà la moda del momento anche in Italia. È difficile però venderli come tali. L’anno prossimo, per la decima edizione, in un periodo storico così attento a quanto offriamo, speriamo finalmente di avere la degna attenzione degli sponsor, finora frenata se vuoi anche dalla limitata conoscenza dell’inglese che in generale l’Italia ha: all’epoca i testi di Marvin Gaye e Curtis Mayfield in Italia non li capiva nessuno, oggi va meglio e c’è un pubblico più fedele e attento rispetto a certe coordinate sonore, ma è pur sempre una percentuale minima rispetto alla totalità della popolazione. In Europa forse la Grecia sta messa peggio di noi, ma nemmeno così tanto. Italia e Spagna fanno davvero fatica a metabolizzare le novità musicali.
In Spagna però ci sono festival come Sónar e Primavera Sound.
Ma non parliamo di Spagna, parliamo della sola Barcellona, che è un caso a sé.
Catalunya is not Spain.
Nel resto della Spagna c’è davvero poco. La Grecia sta scoprendo i festival balneari, sulla falsariga di quanto già avvenuto in Croazia, dove però il mecenatismo inglese ha portato tutto a un forte livello di saturazione.
Parlando di black music, è vero come dici che c’è molto più hype rispetto al passato. La mia percezione è che finalmente anche in Italia ci siano meno steccati tra generi: c’è maggior compenetrazione, e magari anche i riccardoni vanno ad ascoltare black music o elettronica.
Confermo: dal 2008 in poi, e nell’ultimo triennio in particolare, c’è stato un abbattimento dei generi. Oggi ci sono praticamente solo macrocategorie, anche nei negozi di dischi. Se ci pensi anche Gilles Peterson non ha mai parlato di genere, solo di eclectic beats. Come una volta nella musica classica, quando le arie si distinguevano con lento, andante, etc.
Le definizioni musicali sono nate negli anni Sessanta e Settanta in corrispondenza di una forte politicizzazione, servivano a distinguere fra ascoltatori più che fra generi. Venuta meno quella rigidità, oggi le persone che reputo musicalmente fighe hanno in casa da Bach a Miles Davis passando per i Kraftwerk.
Il concetto di rendere accessibile la musica a tutti – Ableton Live ne è l’esempio più lampante – ha fatto sì che si sia aperto un universo di possibilità, in un mondo dove tutto è pop e anche le categorie di abbigliamento punk/dark/hip-hop sono cadute dinanzi a un’uniformità che in senso negativo potrebbe essere percepita come omologazione.