Solange Knowles ha sempre detenuto -sin dai tempi del suo album di debutto per una major, a 15 anni- un’umanità potentissima. Anche quando predicava pace e colori accesi, dal suo sguardo traspariva una rabbia speciale, riconducibile ad una consapevolezza tanto profonda quanto dolorosa.
Il suo quarto, faticato lavoro –A Seat At The Table, il primo sulla propria etichetta, Saint Heron- propone di accomodarsi su una sedia, guardarsi negli occhi, aprirsi e sfogare tutte le verità più scomode.
Non per forza si danzerà, non è detto che sia divertente; questi, però, sono i nostri tempi.
Ventuno tracce abbozzate al piano nel corso degli anni, sviluppate in varie luci; melodie inventate e rivisitate con l’ausilio di grandi, grandissimi musicisti; un booklet digitale di 112 pagine, tra testi -impaginati con ira e ingegno- e fotografie dirette, ma delicate: una marea solamente immaginata.
I got a lot to be mad about
Tanta, giudiziosa indignazione deriva dall’educazione entro cui Solange e sorella –Beyoncé, nome che suonerà familiare- sono cresciute. Entrambe ricercano una sorta di guarigione, ma mentre Lemonade rappresenta un percorso di autocoscienza che nella sua forza rimane una constatazione, ciò che Solange tenta di ricreare è un clima di costante apertura al confronto: la celebrazione domestica, fino a meditata comprensione, della più autentica blackness.
Il padre compare nell’interlude Dad Was Mad, il cui titolo si snoda da sé: il Ku Klux Klan lanciava le lattine a qualunque afroamericano, uomo o bambino che fosse. Nel 2016, un ex leader del KKK ha annunciato la sua candidatura a senatore in Louisiana, terra a cui la voce e il cuore di Solange devono molto.
Mad -integrata da due strofe al solito intensissime di Lil Wayne, la cui recente tensione personale sfocia in un’apice creativo al servizio degli altri- è leggera nonostante tutto. Si è stanchi di dare spiegazioni, stufi di sguardi pesanti: in un termine pressoché intraducibile, Weary.
Il contro-interlude Tina Taught Me espone il punto di vista della madre, che illustra come un atteggiamento pro-black non implichi una mentalità anti-white: il Black History Month è necessario, il silenzio deve estinguersi.
Don’t touch my hair, it’s the feelings I wear
Tina Knowles è stata -prima di divenire stilista e manager delle Destiny’s Child, e di lì è storia- una parrucchiera di successo. La figlia, dunque, conosce meglio di molti la carica spirituale ed espressiva di un gesto semplicissimo: scegliere la propria capigliatura, esibire con orgoglio queste ondose, meravigliose estensioni di sè. Tra le micro-aggressioni più frequenti ad un individuo di colore, spicca la pratica -definita avvilente da Judnick Mayard di Complex- di toccargli la testa, come a sperimentare una nuova, strana consistenza.
L’artista da poco trentenne usa un semplice monito –Don’t touch my hair– per inglobare la frustrazione relativa a tutte le sfide a cui la sua identità è quotidianamente sottoposta.
Nell’intervista di Solange all’attrice e attivista Amandla Stenberg, le due convengono sul fatto che la più forte resistenza all’umiliante non dovresti universale è essere se stessi.
Ricercare la più densa simbiosi possibile con molti altri umani, tutti diretti verso un analogo risveglio morale.
L’interconnessione tra anime simili ricopre di pace il video di Cranes in The Sky, da cui un frame del libretto.
Il tessuto, forgiato proprio dalla cura di mamma Tina, si ispira ad una passerella del 1999, in cui un unico pezzo di stoffa univa i corpi di ventitré modelle scelte da Issey Miyake. Un’idea fondante del pensiero dello stilista giapponese è sempre stata la fluidità delle diverse forme d’arte, a malapena divisibili. Non distante, dalla linea di Solange: spaziando dal disco ai testi del booklet, dai suoi saggi sui safe space alle fotografie di Carlota Guerrero, la sinestesia ci inonda senza avvertire.
Ulteriore ispirazione deriva, tra l’altro, dalla pittura figurativa di Lynette Yiadom-Boakye, priva di contesto e conseguentemente spiazzante.
This shit is for us
Infinita, infrangibile, maestosa è la dignità di cui Sol-Angel si fa portatrice.
Uno dei brani di maggior impatto emotivo è intitolato F.U.B.U. , in onore del marchio streetwear che a cavallo tra i due millenni significava libertà e regalità. For Us By Us, appunto, in riferimento alla realtà afroamericana. Da un semplice garage, il brand divenne un colosso riuscendo addirittura ad inserire un proprio berretto in uno spot Gap, tramite una strofa acapella di LL Cool J.
Solange ci trascina continuamente -e dolcemente- a venerare l’età in cui l’r&b ha invaso il territorio pop. Da conoscitrice interna, sostiene che il genere sia sempre stato sperimentale; qui, senza innovazioni stilistiche rivoluzionarie, riesce a confermarlo con un saggio uso degli spazi, e soprattutto uno studiatissimo uso degli interlocutori. Contribuiscono Dev Hynes (già suo collaboratore in passato, e parallelo con Freetown Sound alla lucida traiettoria di A Seat), The-Dream, BJ The Chicago Kid, Olugbenga, e le silenti leggende neo-soul Questlove e Raphael Saadiq.
Why you gon’ call it “No Limits”?
Per narrare l’album -per stilare l’ordine del giorno- Solange si rivolge a Master P, rapper e grande imprenditore, simbolo per eccellenza di un ascesa indipendente, senza limiti.
No Limits, appunto, il nome del suo impero; nel corso dei sei interlude di conversazione, P parte dalla sua esperienza per convincerci di quanto loro siano i prescelti. Di nuovo, non si tratta di razzismo inverso: in un’epoca paradossale, l’unica via di pensiero utile è l’idea della predestinazione. Se per sopravvivere -tutto inizia da lì- devo riempire il mio bagagliaio di dischi e puntare esclusivamente sul carisma, significa che il fato mi ha già intravisto sfasciare ogni pronostico, frantumando il soffitto di cristallo.
Il filo che lega biografia e storia è intessuto di solennità: siamo tutti re e regine, e chi meglio delle catene di Master P per sottolineare una rispettabilità indissolubile?
La stessa regalità è evocata dai fiati, sempre pronti ad incorniciare i ritmi delle tracce, sottilmente sincopati nella lezione di soul (Minnie Riperton e Erykah Badu tornano equamente alla mente), hip-hop moderno (si senta Telefone di Noname) e funk (palese l’omaggio al produttore Junie Morrison).
I’m gonna look for my body, yeah /
Fall in your ways, so you can sleep at night
Una tappa importante nel sentiero di discussione è la riappropriazione del corpo femminile, tristemente commercializzato, sminuito, mal interpretato.
Attualmente, si stima siano 64 000 le donne afroamericane scomparse, spesso senza sufficiente aiuto mediatico; inoltre, un uomo che rischia di essere il più potente al mondo sbraita in prima serata contro la diversità, contro le donne, contro l’intelligenza. Ora più che mai, va rivendicata l’importanza del corpo della donna, e la straordinaria densità di significati che porta con sé.
L’energia negativa della situazione storica attuale non compromette la lungimiranza di una mente così consapevole: il tempo di assemblaggio di questo lavoro è servito a non portare le nubi a casa, a liberare la rabbia e crescere un figlio fiero e vivo.
Pregiudizio e paura aleggiano come gru nel cielo, e Solange si fa portavoce del vento per cacciarle.
Il titolo dell’album richiama un motto dell’attivista James Forman, secondo cui se non si trova un posto a tavola, se ne devono rompere le gambe.
Solange Knowles -seppure vivace senza scuse, seppure pullulante di opinioni- risponde ai violenti con il loro incubo peggiore: il dialogo, placido e ordinato.
Questo corpo d’opere inventa uno spazio sereno per loro, sfidando un’era in cui troppo spesso di serenità non c’è traccia.
Si percepisce concretamente la collettività del ragionamento: prospettive diverse, reazioni come meteoriti chiare; artisti che inseguono la propria identità, seguendola come unico comandamento.
Sampha, Kwes, Kelela, Kelly Rowland, Tweet e la lista degli invitati non rallenta.
È ora di prendere un posto e sedersi al tavolo.
Siamo nel futuro già da un po’:
per cortesia, brilliamo.