Elektro Guzzi è il moniker dietro il quale si cela l’identità di tre musicisti austriaci di gran talento (Bernhard Hammer, Jakob Schneidewind e Bernhard Breuer) che, sei anni fa, hanno deciso di cambiare la nostra idea di techno music armati di chitarra, basso e batteria. Il sillogismo era più o meno questo: la techno si fa con le macchine; se diventiamo bravi a suonare come delle macchine allora possiamo fare della ottima techno.
Ora: fare techno senza presettaggi elettronici, senza poter ricorrere a loop e overdub è una bella sfida ma se ci si riesce si può contare sul surplus del calore umano nel suonare gli strumenti, assai utile ad un genere che molto spesso ha rischiato standardizzazioni eccessive. Ok, qualcuno mi dirà lo facevano Undrground Resistance e qualche giorno fa Jeff Mills ha suonato a Napoli con la sua band Spiral Deluxe . È vero il suono della vecchia scuola di Detroit rende molto bene anche dal vivo. Ma quello che fanno i tre supereroi viennesi è qualcosa di diverso. Ha un timbro molto particolare e personale. È elettronica da dancefloor: affilatissima, avvolgente, ipnotica, con un groove a dir poco micidiale. Al contempo ha una qualità assai rara: una capacità di introspezione mentale rara. È proprio l’alchemica combinazione di queste caratteristiche, unita a una processualità compositiva che mette l’improvvisazione al centro dell’interplay, la cifra specifica del suono di Elektro Guzzi.
Nel corso degli anni tre LP, un disco registrato dal vivo e tanti live in giro per il mondo hanno cementificato e reso unica la loro formula. “Clones”, uscito lo scorso settembre per la label tedesca Macro Recordings, è il nuovo capitolo di questo percorso originale e senza compromessi. Dieci sorprese, una dietro l’altra, a scardinare ogni ovvietà e a sperimentare altrettante strade inesplorate: a volte virando verso verso il dub, altre volte polarizzando il suono tra atmosfere industrial e paesaggi ambient, sempre prestando la massima cura al minimo dettaglio sonoro.
Abbiamo approfittato dell’uscita del disco per intervistare Jakob, il bassista della band. Il consiglio è quello di leggere ascoltando il mix esclusivo della band appena pubblicato da Mixology.
Ascoltando il vostro nuovo disco ‘Clones’ si provano sensazioni piacevolmente contrastanti: da una parte i piedi non riescono a star fermi sul pavimento, dall’altra la testa se ne parte per viaggi suoi. Riuscite a spiegarci il fenomeno?
Quello che proviamo a raggiungere, con i nostri pezzi, è un tipo di suono che sia ipnotico e ballabile ma, allo stesso tempo, costituisca un’esperienza d’ascolto profonda, significativa anche per un ascolto casalingo in cuffia nel dettaglio delle texture e nella specifica qualità timbrica.
Ad un certo piglio sperimentale mi pare si aggiunga, infatti, una estrema accuratezza del sound design tra suoni concreti e dettagli acustici.
Noi registriamo e produciamo tutta la nostra musica da soli nel nostro studio. Questo ci permette di concederci molto tempo per gli esperimenti senza subire la pressione di uno studio professional. Il processo creativo ne guadagna perché possiamo prestare una attenzione maniacale ad ogni singolo suono e possiamo permetterci di provare soluzioni estreme. In più, per questo album, abbiamo radicalmente cambiato l’approccio compositivo. Prima basavamo tutto sulle jam session improvvisate in studio. Ne facevamo tantissime, le riascoltavamo, capivamo le parti che ci convincevano di più e risuonavamo in base a quelle preferenze. Questa volta, invece, siamo arrivati alle registrazioni che ognuno di noi aveva già scritto le proprie idee per ogni pezzo e doveva semplicemente capire come metterle in relazione con le parti composte dagli altri due. Il risultato ci sembra di poter dire sia stata una estensione dello spettro sonoro che proponiamo in questo lavoro.
Non mi pare che si sia persa quella energia specifica che al vostro suono sembra venire dall’interazione improvvisata.
Anche se ‘Clones’ è il nostro disco più composto di sempre le jam session improvvisate in studio restano alla base di ogni nostra traccia. È li che continuano a venirci le idee migliori. E ancora i nostri live ruotano tutti attorno a questa pratica, declinata sui tre strumenti che suoniamo e parte centrale del nostro suono.
A leggere lo strano, lungo e articolatissimo pamphlet ch accompagna il vostro disco sembra che il concept che c’è alla sua base sia stato molto pensato e studiato. Da quali idee siete partiti?
Il concept del lavoro è emerso durante il processo compositivo e allora abbiamo pensato di cristallizzarlo attraverso questo pamphlet per dare un contesto alla nostra musica. In particolar modo ci siamo concentrati sul significato e le variazioni del concetto di clonazione, applicabile a molti ambiti diversi e interpretabile in molte maniere differenti: ha risvolti legati alle tecnologie, alla società, alla biologia. Poi ci siamo chiesti come il concetto di clonazione si applica alla musica in generale e alla nostra in particolare. Ci interessava aprire una piccola riflessione filosofica che andasse al di là dei semplici steccati legati alla musica live e da club.
C’è stato qualcosa in particolare che vi ha sorpreso durante la lavorazione di questo album?
Di base abbiamo registrato un sacco di materiale, molto del quale non è finito nel disco che potete acquistare. Anche perché è stato davvero sorprendente quanto poco tempo ci è servito per registrarlo. Dopo dieci anni assieme ci conosciamo perfettamente e ci sentiamo molto rodati. Tutto, all’inizio, era molto più lento e complicato anche solo finire una traccia. Ora abbiamo piani molto più chiari che arrivano sino al più piccolo dettaglio e ci sentiamo estremamente più focalizzati. Stiamo migliorando molto.
Da dove arrivano le vostre influenze principali?
Le nostre influenze musicali sono sempre molto variegate e si rinnovano continuamente anche per il fatto che veniamo da ambiti diversi e ognuno di noi coltiva passioni particolari. Le influenze che arrivano dallo strutture poliritmiche, molto evidenti in questo lavoro, vengono dalle passioni musicali del nostro chitarrista, mentre i riferimenti al suono africano e caraibico sono merito delle frequentazioni del nostro batterista. Io sono invece coinvolto in altri progetti più sperimentali e ambient e porto influenze da quegli ambiti dentro il suono di Electro Guzzi.
Sembra che la vostra musica sia connessa alle radici stesse del suono techno secondo il concetto caro ai Kraftwer di ‘The Man Machine’. Allo stesso tempo, però, quello che fate sembra cercare una ida di suono futuribile. Vi interessano entrambi questi aspetti?
Quando suoniamo insieme è tutto molto diretto e basato sul feeling umano tra noi, come è stato per secoli in tante forme musicali legate alla ritualità. Allo stesso tempo, però, ci interessa davvero molto un sound design futuristico per cui ricerchiamo esteticamente e strutturalmente un suono che non abbiamo ancora ascoltato.
Cosa cercate utilizzando una strumentazione tipica da band rock? Vi interessa l’idea di una perfezione meccanica applicata al suono?
Più passa il tempo e meno siamo interessati alla perfezione tecnica. Anzi, sono proprio le piccole imperfezioni ad attirarci maggiormente. In qualche modo la scelta di una strumentazione così basilare ci piace perché ci pone limiti molto precisi e, contemporaneamente, ci permette di esplorare per capire quanto lontano si può andare per superare quelle restrizioni. Ci piace trasformare le limitazioni in possibilità.
Qual è il set up per il vostro nuovo tour?
Il nostro set up non è mail lo stesso per più di un mese. L’album nuovo è uscito ora ma le tracce che ci sono dentro le portiamo in giro nei nostri live già da un po’. Ecco perché ci piace cambiarle e farle evolvere in continuazione. Sul palco faremo già tre o quattro tracce che sono nuove rispetto al materiale del disco. Ovviamente suoneremo alcuni dei pezzi dell’ultima release e delle vecchie cose che suonano quasi come classici del nostro repertorio. Inoltre in questo tour introdurremo sul palco delle nuove possibilità tecniche attraverso l’uso di sequencer e sincronizzatori, controller legati al voltaggio degli strumenti e dei nuovi pad sulla batteria. Tutto ciò porterà ancora più densità e diversità ritmica e timbrica nelle nostre performance dal vivo.
di Andrea Mi