Switch to page 2 for English version
Il danese Uffe Christensen appartiene a quella generazione di giovani produttori che negli ultimi anni ha rivitalizzato la scena elettronica con l’introduzione di elementi di derivazione jazz, disco e soul mescolando il tutto in maniera anticonvenzionale. Nulla di realmente nuovo, chiaramente, ma reso fresco ed interessante dal modo poco ortodosso in cui la materia prima viene trattata. La label Tartelet è una delle principali artefici di questo suono ed è proprio quella sulla quale Uffe ha trovato casa per il suo album di debutto, il riuscitissimo “Radio Days”, e per il suo nuovo lavoro intitolato “No!”. In questa nostra intervista ci siamo fatti raccontare qualcosa riguardo al suo rapporto con l´etichetta, al suo particolare background musicale ed alla sua collaborazione con FaltyDL.
La tua biografia ti descrive come un musicista autodidatta, il che è abbastanza sorprendente visto quanto musicalmente sofisticate sono le tue produzioni. Ci puoi raccontare qualcosa del tuo background?
Beh, vi racconto una cosa divertente. In realtà non ho vera padronanza di nessuno strumento. Ogni volta che mi capita di parlare con qualche giornalista cerco di mettere in chiaro il fatto di non saper suonarne veramente nessuno. Per qualche strana ragione però la gente insiste su questo. Per cui, è vero sono un musicista autodidatta ma uno veramente terribile. Ma d’altra parte però non sono nemmeno del tutto a digiuno di conoscenze musicali. Per alcuni anni mia mamma mi ha obbligato a prendere lezioni. Non ho mai fatto pratica però, è una cosa che ho sempre odiato. Quello che credo di aver imparato sono i rudimenti del funzionamento di melodia ed accordi, anche se le mie mani riescono a suonare veramente poco sulla tastiera di un pianoforte. Ma ai tempi in cui venivo costretto a “prendere lezioni” ero già in grado di comporre interi brani con il computer di mio padre. Non capivo che senso avesse fare pratica ripetendo scale per ore visto che potevo comporre intere canzoni nel frattempo.
Penso che la mia vera formazione musicale venga dall’andare in biblioteca e nei negozi di dischi. Mio padre portava me e mio fratello in biblioteca abbastanza spesso quando eravamo molto piccoli, fin quando sono diventato abbastanza grande da andarci da solo. Ci andavo il più spesso possibile, dopo la scuola. La biblioteca musicale della nostra città era un posto fantastico. Questo prima che arrivasse internet a rovinare tutto. Portavo a casa musica da ascoltare in gran quantità, ed il giorno dopo ci tornavo a restituire i dischi, ognivolta con un po’ di conoscenza in più sul cosa cercare ed in quale sezione. Inolte, mio cugino era un dj hip hop quando io ero ancora un ragazzino, è lui che mi ha fatto conoscere i dischi e la cultura hip hop. Era appassionato di scratching e di conseguenza anche io ci ho provato per un po’. Devo aver avuto quattordici o quindici anni allora. Da lui ho ereditato una coppia di 1200 ed un mixer. Lo scratching non mi è mai riuscito veramente bene, quello che però è rimasto è la passione per il campionamento e per il djing.
Se tu dovessi nominare cinque album essenziali per la tua formazione, sia come musicista che come produttore, quali sono i titoli che sceglieresti?
Oh man, sono davvero troppi per nominarli tutti. Posso citarli solo alcuni, senza nessun ordine particolare, e nel bene e nel male:
Placebo– Ball of Eyes (gruppo jazz-rock belga fondato dal tastierista Marc Moulin, i Placebo uscivano nel 1971 con quest’album che conteneva anche una loro cover di Inner City Blues di Marvin Gaye ndr.)
Jan Jelinek– Loop-Finding-Jazz-Records
Andrew Pekler– Nocturnes False Dawns and Breakdowns
Caribou– Swim
Dj Shadow– Endtroducing
Digital Mystikz– Return II Space
Flying Lotus– Los Angeles
Lukid- Onandon
Cosa ci puoi raccontare della tua collaborazione con la Tartelet, una label che per l’estetica ed il roster che può vantare ben si addice alla tua musica?
Sono sempre stato un fan dell’etichetta, specialmente del loro artwork. Una delle principali ragioni per cui ho sempre desiderato produrre un disco per loro era il poter vedere che tipo di grafica Zander aka The Emperor of Antarctica avrebbe creato per l’occasione. Quel tipo è un genio. Sono così contento che sia stato disponibile per realizzare l’artwork di “No!”.
Pernille, il mio agente, mi aveva presentato Muff Deep a Berlino, in occasone del mio primo gig live e da allora siamo rimasti in contatto. A seguito di questo sono stati pubblicati ben due albums, pazzesco.
È veramente figo come Emil, aka Muff Deep, fin dall’inizio mi abbia dato la completa libertà di proporre alla label ciò che volevo, anche se le loro radici sono ovviamente nella musica da club. In genere gli spedisco qualcosa da ascoltare avvisandolo “Non sono del tutto sicuro che qualche dj potrebbe usare questa”, oppure “Questo è un pezzo che non si può proprio mixare”, e lui mi risponde “Chi se ne frega se non si può mixare, se un buon brano, è un buon brano”.
L’album di Wayne Snow che sta per uscire è una bomba.
In passato hai anche realizzato un EP per l’etichetta di FaltyDL, che tra l’altro ha paragonato il tuo stile vocale a quello di Arthur Russell. Come hai avuto modo e incontrarlo e come è cominciata la vostra collaborazione?
Essere paragonato ad Arthur Russell è senz’altro un gran onore per me. La storia del nostro incontro ad essere onesti è piuttosto prevedibile. Drew aveva sentito della mia musica e mi ha contattato per chiedermi se avessi qualche cosa per la sua label. A lui sono piaciuti tutti i miei brani che nessun’altro era interessato a pubblicare, ovviamente questo mi ha fatto molto piacere. Produco un sacco di musica, probabilmente solo il 10% di quello che realizzo viene poi anche pubblicato. Sono un grande fan di FaltyDL, lo seguo da quando ha realizzato Love is A Liability ed il fatto che mi abbia contattato mi ha stupito molto. Sicuramente produrrò ancora qualcosa per Blueberry, la sua label, in un prossimo futuro.
Il tuo modo di cantare è molto particolare, è sottilmente soulful. Quand’è che hai iniziato a cantare e come hai sviluppato il tuo stile?
Quando ho prodotto la mia prima uscita discogafica come Uffe -tantissimo tempo fa, quando il mio sound era ancora in una fase sperimentale- ho cantato per la pima volta sulla mia musica. Mi pare di ricordare che fosse per il brano I Leave Soon. Fino a quel momento avevo sempre cercato qualcuno che cantasse sulla mia musica, il che può essere un gran rompimento. Per cui ho iniziato a cantare da pochi anni. Onestamente non mi considero un cantante, non lo sò fare cosi bene, ma cerco di fare il mio meglio.
C`è di buono che con avendo l’opzione di cantare sulla propria musica si comincia a pensarla anche in maniera differente. Il pensare “Oh, penso che proverò a registrare questa frase da accostare a questa parte per vedere che succede” aggiunge un elemento nuovo al lavoo che si sta facendo in studio, senza doverci pensare troppo su, come spesso la parte cantata di una canzone porta invece a fare. Penso che spesso la mia voce abbia su un brano lo stesso effetto che farebbe una parte vocale campionata.
Il tuo album di debutto “Radio Days”, se messo a confronto con il tuo nuovo “No!”, era molto eclettico. Ci puoi spiegare quale è la differenza di approccio tra i due dischi?
Il fatto è che l’intenzione dietro “Radio Days” era proprio quella di farne un disco eclettico. La musica che ci sta dentro è stata prodotta in un lasso di tempo in cui ero continuamente bombardato da ispirazione ed imputs. Specialmente grazie al coinvolgimento con la radio, sia come ascoltatore che facendola in prima persona. Perfino il lavoro che ho presentato per la mia laurea alla facoltà d’arte che frequentavo allora era un programma radiofonico. Per questo motivo il titolo “Radio Days” sembra riassumere bene quel periodo.
Durante quel periodo ero veramente frustrato dallo stato di degrado in cui la musica si trovava, e si trova ancora. Mi sembra che dieci o venti anni fa ci fosse ancora chi era disposto ad investire soldi ed impegno per produrre un disco come si deve. Ora la gente realizza una sola canzone e tutto il resto dell’impegno produttivo viene invece riservato per tirare fuori un video mediocre. Perche è quello il medium principale per la musica oggi. Non riesco davvero a rapportarmi con questo stato di cose- e questo viene pure visto come un handicap nel 2016. Tutti i dischi con cui sono cresciuto erano dei mondi sonori del tutto compiuti ed ho voluto che “Radio Days” ne fosse il riflesso.
Ho cercato di realizzare un seguito di quell’idea con il nuovo album, ma volevo che il suono fosse più eterogeneo. Per quel che riguarda il titolo anche la sua origine riflette quel mio malcontento. Nel periodo in cui l’ho prodotto tutto sembrava rispondere con un no a qualcosa. In un modo o nell’altro. Penso che sia importante potersi permettere di dire no ed essere critici nei confronti delle cose. Anche se non è sempre la cosa più facile da fare.
Il sound di “No!” è molto omogeneo. Anche nelle sue tracce più ballabili –o le versioni dub di un paio di queste contenute pubblicate in versione bonus 7” super sexy- l’impressione che ne ho avuto è che siano il risultato di lunghe sessions con tutti gli strumenti registrati assieme in presa diretta. Ci puoi raccontare qualcosa a riguardo?
Il concetto che sta dietro al progetto Uffe è quello di realizzare musica per i clubs che suoni come se fosse una band ubriaca a suonarla, improvvisando della musica house nella propria sala prove, o qualcosa del genere. Sono cresciuto ascoltando musica elettronica ed hip hop –i dischi della biblioteca di cui raccontavo prima- un mucchio dei quali sicuramente molto strani per un ragazzino dell’età che avevo allora. Il risultato è che non trovo più le sonorità elettroniche cosi interessanti come invece era una decina di anni fà. Nel frattempo ho scoperto il jazz, la techno, la disco ed il dub relativamente tardi rispetto ad altre persone. Cosi al momento sono molto più affascinato dal tipo di tecniche usate per far suonare cosi bene una batteria in una vecchia produzione disco oppure dal fatto che sui suoi dischi, puoi effettivamente sentire come Scientist usava i faders del suo mixer. Capisci cosa intendo? Cerco di far suonare le mie produzioni come se ci fosse sempre qualcosa in movimento. Con i vari elementi che vanno a tempo ma anche fuori tempo tra di loro. Non come se il tutto fosse realizzato al computer.
Il disco è si basato su dei samples, ma ho la grande fortuna di avere dei buoni amici che sono anche dei grandi musicisti e vogliono collaborare con me. Sono cosi generosi da lasciarmi trarre profitto dal loro talento per tramutarlo nella mia musica techno.
Ho sempre amato le b-sides e le versioni dub delle canzoni, in particolare delle tracce disco che amo proporre in veste di dj. Cosi quando la Tartelet mi ha proposto di includere un 7” di accompagnamento all’album ho subito pensato che fosse la mia occasione di provare a fare qualcosa del genere.
Il mio prossimo disco sarà praticamente un EP pieno di b-sides. Ci sto lavorando proprio al momento.
Ci sarà la possibilità di vederti suonare in Italia in un prossimo futuro?
Chiamatemi, posso arrivare con una borsa piena di dischi o con la mia band al completo. Mi piacerebbe tornare presto in Italia!
Switch to page 2 for English version