Se c’è qualcosa che possiamo rimproverare a Anderson .Paak -in stato di grazia da un anno o poco più, infallibile da quando Dr Dre ha messo occhi e soldi su di lui- è la mancanza di poesia. Le sue storie, raccontate col sorriso in tempo pseudo-reale, presentano sempre un limite. C’è ironia, c’è soul a valanghe caldissime, ma il suo registro varia troppo poco, proprio come il suo amato schema metrico ABAB.
Il ruolo di cantore -ancora non è un grande rapper, ancora non è uno straordinario cantautore- si addice perfettamente, però, all’idea fondante del duo NxWorries. La A e la B, qui, si completano quasi senza parlare: poco importa se il nome è per un attimo illeggibile, poco importa se le tracce sono troppe per ricordare a memoria i titoli. Tutto risulta ed è immensamente spontaneo: un dialogo creativo esente da pensieri o problemi.
Knxwledge, come .Paak, è nel pieno di un’ascesa: da beatmaker apprezzato nell’underground, da figura elusiva e dispersiva, ora è divenuto un nome associabile a questa o quella impresa, nonché la metà cruciale del gruppo NxWorries.
Poco importa se Curtis Mayfield non c’è più, poco importa se Marvin Gaye se n’è andato. Proprio in onore della noncuranza, scettro della genuinità alla mano, Knx decide di attuare per la prima volta in carriera una sorta di post-produzione. Nelle sue decine di progetti faccia a faccia con i samples, il mixaggio era qualcosa su cui sorvolava; spesso i tapes contenevano più di venti beat, grezzi e sparsi. In Yes Lawd! il linguaggio è più preciso e circoscritto, senza rinunciare alla follia. I cento sentieri hanno un punto di partenza comune, il traguardo si vede. L’approccio -a partire dal titolo- è fortemente gospel, a richiamare le origini corali del suo orecchio, maturato suonando gli strumenti a messa e registrando in segreto qualunque rumore.
La disobbedienza, questa volta, equivale a disarmante coesione: i samples tagliati dal ventottenne, al solito ricercatissimi, vibrano di una comune dose di funk, certificata dal Fender Rhodes tipico del soul-jazz anni ’70. È percepibile la compresenza di due individui nelle medesima stanza; tra una sincope e una sovrapposizione, si intravede la scia fumosa del blunt che passa di mano in mano.
Ciò che stupisce è l’abitudine che i nostri sensi acquisiscono dopo un ascolto completo.
Accetteremmo volentieri altre venti tracce, perché ormai le nostre spalle circumnavigano qualsiasi preoccupazione.
Un lungo, frammentato ‘Hakuna Matata’ dedicato alla vitalità della blaxploitation era, i cui interpreti si rivelano caratterialmente opposti e, di conseguenza, complementari.
Da un lato, un trentenne californiano di retaggio tormentato. Un ex-senzatetto che, alimentato da fiumi di talento, ha raggiunto la sua melliflua rivincita, e ora non ha interesse ad uscire dall’acqua.
Non distante, sempre in zona LA, Knxwledge è sereno, plasma beat dall’alba a sera, ed è segretamente rassicurato dal fatto che il suo straordinario caos possa aiutare qualcuno, da qualche parte. I luoghi in cui ciò accade aumentano di giorno in giorno, dunque fermarsi non è nemmeno un’opzione.
Livvin è pura celebrazione: fiati felici, un coro crescente, rulli a preannunciare una vittoria continua e autoproclamata. C’è il relax, velocemente convertito in libido: “It’s been a long time since we danced all night / I wanna see that ass move around”, canticchia Wngs. C’è spazio sia per la bizzarria del producer -si sentano le fughe di Can’t Stop, Fkku, Jodi– sia per la giocosità della voce, come in H.A.N. e Best One.
Il resto è un continuo, crudo manifesto: potrebbe essere una collezione di demo, ma in fin dei conti “…it’s only as hard as you think”.