“Ascolta, il discorso è molto molto semplice: c’è sempre qualcuno che ha asfaltato la strada prima di te e ha reso determinate cose possibili, specie in questo ambiente e in questa musica.”
Iniziamo a parlarvi di More Hate (Nicholas Fantini a.k.a. Egreen, autoprodotto) con una citazione presa dall’ultima parte dell’ultimo brano del disco, “Comune denominatore”. Può sembrare strano cominciare dalla fine, ma proprio qui sta la massiccia chiave di lettura con cui aprire ogni discorso sulla più recente fatica del rapper di Varese.
L’album, già il titolo ne suggerisce l’aspetto fondante, è un altro anello coerentemente inserito nella catena di tecnica e rabbia che Egreen stringe attorno al collo di un certo rap italiano. Le sonorità si prestano molto bene all’impresa: il disco stilla beats crudi che suonano old school. Il concetto “vecchia scuola” è dei più inflazionati, quindi chiariamo: More Hate tralascia i formalismi a vantaggio di un’atmosfera che porta l’orecchio ai locali sporchi con il fuoco nei bidoni all’esterno, dentro un MC e il suo dj, voce e base: bisogna essere bravi per farlo suonare semplice. L’intento è comunque dichiarato in più brani, su tutti, ancora una volta, “Comune denominatore”, dove Fantini si spende in dediche e ringraziamenti a padri e fratelli d’arte: Bassi Maestro, Fritz, Lord Bean, Dj Jad, Corvo D’Argento (poi Dargen D’Amico), solo per citarne alcuni.
Su queste fondamenta si installano i pezzi autocelebrativi – “Bene così”, “Meglio di scopare” – e quelli di critica alla scena rap “nemica”, quella finta, arrivista, senza background – “Xerox”, feat. Nex Cassel, dove già nel titolo (che porta il nome di una famosa casa produttrice di stampati e fotocopiatrici) si intuisce l’attacco a quei rappers “fotocopie di fotocopie di fotocopie” -. Viene in sostanza proposto il cliché del rap game, che in quanto tale rischia spesso di cadere nel fine a se stesso, nel già detto: merito di Egreen è quello di portare anche qui del contenuto, non bastassero metriche e flow, il rapper quasi argomenta (e in extra beat non è facile) la sua superiorità al microfono, segando un confine tra “noi” e “loro” che già al terzo pezzo della tracklist (“Sposato pt.II”) definisce un bersaglio.
“Queste mezze seghe fanno tutte cagare dal vivo / poi fate passare per pazzo a me che ve lo dico / perché sto rap nuovo del cazzo sembra vada capito” e ancora “le mode vanno trattare tutte un po’ come tali / passeggere, effimere, senza spine dorsali”. Il riferimento sembra chiaro, a maggior ragione se cantato da Egreen, non abituato a nascondersi dietro un dito. Fantini mette in rima un pensiero già espresso altrove, ad esempio nella lettera aperta indirizzata a Rolling Stone (numero di settembre 2016):
“Ghali, Sfera e la Dark Polo (per citare i massimi esponenti di questa nuova ondata) … Ben vengano l’hype e il successo. Certo, credo siano una cosa diametralmente opposta a quella che faccio io, per come intendo il rap e l’approccio alla sua disciplina.”
E conclude, geniale:
“Il tailleur di Chanel è un classico senza tempo dai primi del ‘900. E le mode, beh, le mode vanno trattate come tali. Arrivano, esplodono, e se vanno.”
Quanto l’album ha da offrire non si limita però a questo: il disco risulta interessante anche quando devia dalla sonorità principale, effetto ottenuto soprattutto grazie a collaborazioni ben scelte. “Smooth operator” è un tappeto di batteria con una melodia blues in lontananza su cui la voce cammina a piedi scalzi, come a casa propria. C’è poi il suono quasi reggae di “Soldiers”, feat. Attila, e l’invasione di dubstep e grime in “Show and Prove”, feat. Virus Syndicate, probabilmente la collaborazione meglio riuscita del disco.
La cornice di tutto ciò è Milano – il cui ruolo è chiarito nella copertina dell’album, dove dal nero si stagliano in rosso sangue lo stemma di Varese e del capoluogo lombardo – attuale città d’azione del rapper, ma già dall’adolescenza sfera di influenza per tutte le cittadine, la sua compresa, che le gravitano attorno. Milano, con le sue etichette discografiche, gli studi di registrazione, i locali e i localini è il polmone della scena rap italiana, e in quanto tale viene esaltata, senza però dimenticare l’immancabile sorella Roma. A sancire il corso principale del flow made in Italy ci aveva già pensato “Milano Roma”, ormai un classico dell’hip-hop peninsulare firmato Club Dogo e Cor Veleno. Egreen raccoglie il testimone e propone “Milano Roma pt.II”, con il featuring di Er Costa. Il remake si apre con i props d’autore di Dj Squarta, di Jake e di Pequeno: i maestri approvano. Chissà cosa avrebbe detto Primo Brown, alla cui memoria pare evidentemente dedicato il pezzo, e se avrebbe dato il benestare a “dopo i Corve con i Dogo a darci testimone / siamo l’orgoglio di sta cazzo di generazione.” Noi siamo sicuri di sì.
More Hate dunque mantiene le promesse della vigilia: è fieramente indipendente, cablato su uno stile disinteressato alle tendenze del momento e che urla la volontà di restare tale, di preoccuparsi più dei live che dei videoclip, della sua spendibilità su un palco piuttosto che su un profilo social.
– di Alessandro Cecconato