Dopo la trasferta americana di qualche tempo fa (ve la raccontarono qui), un mese fa i pugliesi Moustache Prawn sono stati in tour in Giappone. Abbiamo chiesto a Leo, Ronny e Giancarlo di raccontarci questa nuova esperienza e loro lo hanno fatto anche con il contributo delle gif.
La prima cosa che pensi non appena metti piede in una delle metropoli più grandi al mondo con la band di amici con cui suoni da anni è: ce l’abbiamo fatta. Ci sembrava troppo assurdo per essere vero, era nato per gioco e per scherzo, eppure eravamo lì, sotto le luci delle pubblicità al neon di Tokyo, i cartelli di Hello Kitty, i robot giganti, i templi maestosi, a due passi dal monte Fuji, 22 ore di viaggio alle spalle, uno scalo nel caos di Shanghai, stanchi ma felici, alla ricerca disperata dell’albergo alle spalle di Kabuki-cho, il quartiere a luci rosse gestito dalla Yakuza.
La nostra stanza è tipicamente giapponese, per entrare devi togliere le scarpe e, una volta aperta la porta del bagno, la tavoletta del cesso percepisce la tua presenza, si riscalda e si solleva. Ti siedi e un tubicino che spruzza acqua sbuca dal nulla, puoi decidere la gradazione, la temperatura, il tipo di spruzzo e, se hai vergogna di far sentire i tuoi rumori intestinali, puoi premere un pulsante che simula il gorgoglio dell’acqua del galleggiante.
Esci dal bagno che sei un uomo felice, rilassato, migliore.
Ci metti un po’ ad ambientarti ai modi di fare giapponesi. Dopo un paio di giorni ti senti già una merda ogni volta che non ti inchini all’ingresso di un supermercato, o ti soffi il naso in pubblico o, per sbaglio, ti metti un po’ più comodo sul sedile della metro occupando metà del posto accanto. Il rispetto, la civiltà, la quiete e l’educazione del popolo giapponese ti lasciano da subito disarmato, specialmente se sei un occidentale che ha vissuto gran parte della sua vita in un piccolo paese dell’ Italia.
Dopo due giorni di turismo selvaggio, tra Asakusa e Shinjuku, cercando di vedere il più possibile di una città immensa e frenetica (da provare assolutamente l’attraversamento pedonale di Shibuya, specie nel weekend, dove centinaia di persone attraversano un enorme incrocio allo scattare del verde, e ti senti una cazzo di formica) arriva il momento del nostro primo live in Giappone, al Garage di Shimokitazawa, dove ci troviamo per la prima volta a condividere il palco con gruppi giapponesi e a capire come funziona il sistema musicale indipendente. Le band (almeno finché non si fanno un nome e non garantiscono ingressi) sono solite affittare la sala concerti (live house) per esibirsi e promuovere la propria musica. Non ricevono dunque un compenso come succede in Italia. Ogni live house garantisce una strumentazione da paura, per vedere un concerto si paga attorno ai 15-20 euro e, a fine serata, ti lasciano un DVD della tua esibizione che, se ti piace, puoi duplicare e vendere nel tuo tavolo del merch.
Il giorno dopo ci spostiamo da Tokyo per raggiungere la sede della nostra etichetta giapponese, la 33Record, a Urayasu. Yuji ci viene a prendere dalla stazione e ci porta in una zona industriale circondata da studi cinematografici con gigantografie di Godzilla sui muri. L’auto si ferma dinanzi ad un enorme magazzino contenente migliaia di scatole di bulloni per oggetti subacquei. Ci sono montate delle tende da campeggio e, alzando lo squardo, ci rendiamo conto di trovarci in uno studio di registrazione allestito su di una piattaforma rialzata. Era la sede dell’Ice Cream Studio. Conosciamo il resto della squadra, Yawn e Ryu. Ci dicono che dobbiamo registrare 3 dischi in 3 giorni attraverso il metodo degli sketches. Decidiamo di accettare la sfida, passando tre giorni ai limiti della psichiatria tra vecchi robot dell’Atari e assurdi strumenti d’altri tempi, a registrare tutto ciò che ci passa per la mente in compagnia di tre ragazzi talmente folli da non sembrare veri. La stessa sera ci raggiunge un giornalista della webzine OTOTOY che ci intervista in uno stato mentale a metà tra il sogno e l’incoscienza. Probabilmente ricorderemo questi giorni come tra i più belli della nostra vita. Poter registrare ogni genere di musica (tra cui il rap e la cumbia) metà in lingua italiana, metà inventata e metà giapponese, andare a mangiare sushi in quelle catene assurde dove tutto è così automatizzato da farti sentire inutile come essere umano, essere portati a spasso nei megamagazzini geek di roba usata giapponese, tra statuine degli anime, Gundam in ogni angolo, distributori di slip femminili di seconda mano, file infinite di manga, luci stroboscoipe e musichette j-pop assordanti che ti trasformano in un essere privo di pulsazioni emozionali. L’ultima sera è un po’ triste, perché è l’ultima insieme a loro, e Yuji decide di farci dormire nel suo minuscolo appartamento di Tokyo (non ci era mai entrato nessuno se non la sua fidanzata) per fare una doccia e bere sake sul balcone del tredicesimo piano, vista mozzafiato sulla Skytree, una Tokyo totalmente immersa nel silenzio delle 22, e sai già che ti mancherà ogni singolo momento di questo viaggio.
Il giorno dopo è il nostro ultimo a Tokyo (ci torneremo a fine tour per le ultime due date) e andiamo allo Yoncha dove, prima di esibirci in acustico, facciamo una specie di meeting in cui spieghiamo cos’è per un italiano il Giappone, gli stereotipi più comuni, i nostri anime preferiti, le differenze con il nostro ambiente musicale. La serata si concluderà con una versione italo-giapponese di O’ Sole Mio con Maki, una cantante lirica appassionata dell’Italia.
Il mattino dopo ci svegliamo prestissimo per andare dall’altra parte di Tokyo (prendere la metro alle 8 del mattino senza bere il caffé con le valigie giganti, gli zaini e gli strumenti in mano schiacciati nel vagone come sardine è un’esperienza da non ripetere) e ritirare il camper con il quale avremmo continuato il viaggio. Ovviamente il tipo dell’agenzia non parla inglese, così perdiamo un’ora buona nel suo ufficio senza scarpe e con le calze bucate, a ripetere frasi del tipo “non abbiamo bisogno dei piumoni” oppure “che significa la sigla 2L del cambio automatico?” ad un’app di traduzione simultanea. Ci mettiamo per la prima volta su strada, guida a sinistra, manubrio a destra, una Tokyo ipertrafficata nell’ora di punta, le macchine che ci suonano dietro, due ore di ritardo, navigatore in giapponese, panico. Poi finalmente ti ci abitui, basta spostare il pensiero verso l’emisfero sinistro del cervello e il resto viene da sé. Arriviamo a Nagoya, spendiamo 2000 Yen (quasi 20 euro) di parcheggio ma finalmente suoniamo sul palco del Jammin’. Conosciamo diversi gruppi interessanti (tra cui le JinnyOops!, anche loro al SXSW qualche anno prima). Ma arriva la notte e noi non abbiamo idea di dove dormire. Decidiamo di metterci in strada per Osaka e di dormire nel parcheggio dell’autogrill dell’autostrada, in fondo ci sono i bagni pubblici e le stanze per cambiare il panno ai bambini possono ritornarci utili.
Il giorno dopo siamo ad Osaka in uno dei locali più fighi in cui abbiamo mai suonato, megaschermo dietro il palco, super impianto, un camerino da superstar, interprete, non potevamo chiedere di meglio. A fine serata scorpacciata di Takoyaki (una sorta di polpette di polipo) e Okonomiyaki (una sorta di tutto quello che vuoi in una sola pietanza) e poi dritti al parco a bere sake di fronte al castello di Osaka.
Il 14 Ottobre è la volta di Kyoto, una città magica, antica capitale del Giappone. È qui che abbiamo respirato l’aria del Giappone antico, i costumi, le case, i santuari, insomma un tuffo nel passato. Avendo soltanto un giorno per visitarla, decidiamo di andare al famosissimo santuario di Fushimi-inari Taisha, con quelle centinaia di torii arancioni e le statue di volpi e i draghi e i monaci e le canne di bambù e tanta bellezza in un solo angolo di mondo. La sera siamo al Socrates, atmosfera scena hardcore di Los Angeles anni 80, sottoterra, tutti molto accoglienti come al solito, superserata che si chiude tra le magie del sake a con Light my Fire al karaoke.
Il giorno dopo vediamo una parte diversa del Giappone, quella più rurale e dei paesi di provincia, siamo a Yasu e ci ritroviamo prima a pescare una carpa con dei pescatori locali, poi a suonare in un festival con altre 11 band di ogni genere. Nessuno naturalmente parla inglese. Nemmeno hello, per intenderci. Ci si capisce a gesti. Shun, il gestore della live house, ci porta nella sua stanza dei giochi, giocattoli giapponesi di ogni tipo, una palestra, camerino dove gli artisti si truccano, band glam-metal che si stirano i capelli a vicenda, tutti che vogliono farsi le foto con noi, gli italiani venuti dall’altra parte del mondo, ed è tutto così strano da giorni ormai che non ci fai più caso.
Raggiungiamo Kobe il giorno dopo per suonare al The Ember Room, il locale di Paul, un americano trasferitosi qualche anno fa per insegnare inglese e che in Giappone ha trovato la sua dimensione. Al the Ember Room ci lavorano un sacco di stranieri, canadesi, danesi, francesi, è un po’ un punto di aggregazione tra le diverse culture presenti a Kobe. Dopo aver accompagnato il nostro manager Marco a mangiare la famosa bistecca di Kobe, siamo pronti a suonare in acustico sul terrazzo dell’edificio, vista magnifica, tanta gente ad ascoltarci, interviste e tanti contatti scambiati. Purtroppo non possiamo restare fino a tardi, il giorno dopo dobbiamo lasciare il camper e abbiamo intenzione di passare la notte sotto il monte Fuji, per svegliarci e ritrovarcelo davanti. Non sarà possibile perché ci saranno troppe nuvole a coprirne la vista, ma facciamo in tempo a raggiungere la famosa foresta dei suicidi, in un’atmosfera da horror, la nebbia, i corvi, il benzinaio pazzo, la lancetta della benzina a zero. Riusciamo a raggiungere Kawasaki sani e salvi, per esibirci al Music Bar Teen Spirits.
Ritorniamo a Tokyo per gli ultimi due concerti del tour, all’UFO Club e al Liveholic. Abbiamo deciso di chiudere in bellezza e di prenotare al capsule hotel per due notti. Siamo stati abbastanza bene. Ti senti al sicuro in una capsula, nonostante l’unica cosa che ti divide dal corridoio dove dormono altre decine di sconosciuti sia una sudicia tenda ed un muro fatto di cartone.
Dalla fermata di Kohei Station ci viene a prendere Mihoko (l’organizzatrice dell’evento, una delle persone più gentili che abbiamo incontrato), accompagnata da Roxy, una ragazza canadese venuta a fare l’interprete. L’UFO Club è un locale lisergico, le mura rosse che si sciolgono, piramidi e vulcani dipinti sul muro, ti senti in colpa per non essere i Jefferson Airplane ma la serata ha tutt’altro piglio, gruppi incazzati che danno l’anima sul palco, sudano e urlano e si divertono. Facciamo amicizia con i PlasticZooms, una delle band post-punk più promettenti di Tokyo, e diamo inizio al nostro show. Serata indimenticabile, così come lo sarà al Liveholic di Shimokitakawa, il quartiere dei mercatini in cui, mentre passeggi spensierato tra i vestiti usati, viene trasmessa una dolce musichetta da sogno nelle strade facendoti sentire in un film di Miyazaki. Comincia a venire la tristezza, sono stati giorni intensi, una delle esperienze più incredibili della vita. Yawn e Ryu sono venuti a vederci e ci portano a fare un ultimo giro in macchina a Tokyo, e immaginate già la testa al finestrino, le luci solitarie al neon che svaniscono una dietro l’altra, una canzone triste allo stereo e gli ultimi noodles nell’unica locanda aperta del quartiere. Siamo arrivati al termine di questo tour in Giappone ma, non contenti, passiamo l’ultimissima notte a Shanghai dove un tassista privato, ovviamente zero inglese, ci porta a visitare la città più popolosa al mondo, i grattacieli che si perdono tra le nuvole, poche anime in giro, il silenzio, la paura di essere finiti in un qualche giro clandestino di estrazione organi, il divario palpabile tra tanta ricchezza e opulenza ed un’estrema povertà. Ma è giunto il momento di abbandonare il sogno asiatico e di ritornare a casa, di mangiare la tanto agoniata pizza di Mario a Tiburtina, 2 minuti e mezzo per mangiarla e 10 per digerirla, piegata come fosse una piadina, dritta nell’esofago. Non ci saremmo mai aspettati di vivere un’esperienza del genere e, soprattutto, di portare la nostra musica così lontano. Questa, per noi, è una delle soddisfazioni più grandi, a prescindere dai dischi che vendi, dai biglietti che fai e dai like che prendi. Sayounara.