PROCESS noun
/ˈprəʊ.ses/
1 – A series of actions that you take in order to achieve a result
2 – A series of changes that happen naturally
Il significato implicato da Sampha nel titolo del suo album di debutto risiede esattamente tra la prima e seconda accezione.
Sua madre e suo padre sono entrambi scomparsi a causa di un cancro, processo incontrollabile che diffonde senza chiedere permesso.
Dice che non esiste un grieving process, non c’è un’elaborazione predefinita del lutto; è inutile cercare di digerire razionalmente eventi così tanto più grandi dei nostri cuori.
Rimane lì nella sua gola, la nuvola: può solo provare a cantarla via.
Se generalizzare il percorso di metabolismo emotivo è impossibile, descrivere ampiamente il proprio è una missione da tentare.
Dal mistero disarmante di Plastic 100°C (I didn’t really know what that lump was) si giunge stremati alla consolazione di What Shouldn’t I Be (You can always come home).
Nel tragitto ci si imbatte nel dolore agrodolce di Kora Sings (You’ve been with me since the cradle / Please don’t you disappear) e in rimorsi di diverso peso (Reverse Faults e Incomplete Kisses), passando per la paura di Blood On Me e la nudità emozionale di No One Knows Me (Like The Piano), già palese nel titolo.
L’album è un’importante affermazione, dopo anni passati ad interpolare visioni altrui: proprio grazie all’influenza diretta di Beyoncè, Solange, Drake, Frank Ocean e Kanye West (co-autore di Timmy’s Prayer), ora il londinese sa di avere diritto ad un ego.
A differenza dei primi lavori strumentali e del fuggevole EP da solista Dual, Process risulta completo sin dal primo ascolto.
Le percussioni -ora sparse e ora dense, ma sempre inspiegabilmente gentili- non stridono con le tracce dominate dal fidato pianoforte; gli strati di voce completano una trama fatta, tra gli altri materiali, di antiche influenze africane, come testimoniano corde e ritmi di Kora e Plastic.
Ogni traccia ha due facce, come se la sua storia personale avesse agito da àncora contro la speranza di salpare verso lidi chiari. Al grido under risponde thunder, e la metafora del cortocircuito è riproposta più volte, descritta come lost signal.
Proprio al primo ascolto del disco, una Persona mi ha descritto la voce di Sampha come una sostanza simile al miele, ovvero densa e dolce, ma calda, trasparente e bianca allo stesso tempo: quando ti ci immergi si vede ogni cosa, dunque è trasparente; bianca, perché lì si riflettono senza esclusione tutti i colori.
Sampha possiede un dono speciale, più raro di quanto si possa pensare: in poche parole, in locuzioni semplici, riesce a sintetizzare emozioni che non saremmo mai stati in grado di definire. È uno specchio schietto, empatico ma franco: sfodera quattro, cinque vocaboli in un preciso ordine ed ecco la frase di cui il tuo libro ha sempre avuto bisogno.
La musica intorno ha uno scopo perfettamente complementare, se non identico: epurare il sale dalle lacrime, convincere che stringere le labbra non è più necessario di un umidissimo pianto.
You’re free, ripete con insistente vigore Take Me Inside: sei libero, libero anche di scordare appena appena il piano, se serve a ricordare, piano. Libero di essere vulnerabile, perché chiunque nasce nudo.
Una valanga di sensazioni, e ciò che rimane è un senso di ostinata, ricca ricerca: il sole bacia solo chi crede in lui, e siamo certi che Sampha Sisay, ventotto anni, gli sorrida quanto può.
Nel 2016, ha aggiunto soul e spirito a molti tra i migliori album dell’anno. Nel 2017, tra i dischi più rilevanti figurerà sicuramente il suo.
Nel finale di Plastic 100°C, Buzz Aldrin dice a Neil Armstrong che sta tirando la leva sbagliata. Il loro viaggio verso la Luna è quasi perfetto, manca così poco.
Armstrong esita, ma trova la concentrazione:
I’m just… Okay. I think I’m ready to pull it down now.
Sampha è sempre più su, ancora più su.
Che sia pronto a tirare la leva?