Che il disco di Giorgio Poi fosse tra i più attesi del 2017 era risaputo già dalla scorsa estate, e non abbiamo esitato a inserirlo tra i nomi nuovi da tenere d’occhio. È palese peraltro che Fa niente entrerà di diritto nella nostra classifica di fine anno dei migliori dischi (anche se siamo ancora a febbraio).
Novarese di nascita e poi lucchese e poi romano e ancora londinese e infine berlinese, in molti già conoscono il cittadino d’Europa Giorgio Poi per la sua esperienza con i Vadoinmessico/Cairobi. L’esordio solista per Bomba Dischi non solo rappresenta il suo passaggio al cantato in lingua italiana, ma mostra l’abilità e la personalità dell’artista nell’unire la tradizione nostrana più bella e quei suoni internazionali così apprezzati in questi anni ma da cui troppo raramente il cantautorato italiano sembra attingere in fase di composizione. Il frutto di tante esperienze di musica e di vita pervade le nove tracce del disco con acuta spontaneità.
I Tame Impala che suonano una cover di Lucio Dalla? Lucio Battisti e Mac DeMarco in jam session? Vasco Rossi e Ariel Pink “a parlare chiusi dentro un bar”?
Forse, semplicemente Giorgio Poi.
Hai suonato e registrato tutti gli strumenti nel tuo disco. Da cosa ti sei fatto ispirare per riuscire a sommare questo processo di scrittura strumentale e convogliarlo nei testi?
Personalmente lascio sempre il testo come ultima cosa, a parte magari qualche parola o qualche frase che definisco già in corso d’opera. In generale mi piace farmi convincere dal pezzo senza parole, prima di mettermi sul testo. Credo che scrivere il testo di una canzone non sia troppo diverso da sviluppare una parte di batteria o di basso: il ritmo, il suono e la melodia delle parole sono la cosa più importante secondo me, più del significato. Credo che delle parole bellissime su una canzone che non funziona siano uno spreco enorme, e per questo le lascio sempre per ultime.
Perché un artista che ha sempre scritto testi in inglese sente la necessità di cantare in italiano? Cosa ti ha spinto a questo cambiamento?
Mi andava di provare: per me era davvero un salto nel vuoto, non sapevo se mi ci sarei trovato oppure no. Ho scritto le prime frasi e le ho registrate, e mi sono divertito un sacco, era esattamente quello che volevo fare e per me ha avuto subito senso.
Ascoltando i tuoi pezzi mi sono chiesto quanto ti avesse influenzato il funk all’italiana di Battisti (periodo Panella), alcune produzioni di Radius e Umberto Balsamo, il Pappalardo prodotto da Lucio…
Radius mi piace un sacco, soprattutto un disco che si chiama America Goodbye; anche Battisti, per quanto per ora abbia ascoltato di più le cose con Mogol. Lucio Dalla è stato una vera ossessione in questi ultimi anni.
Mi sono immaginato Loredana Bertè cantare Niente di strano e Acqua minerale, secondo me sarebbe meraviglioso… è come se il tuo modo di cantare racchiuda alcune caratteristiche del meglio del cantautorato italiano (maschile e femminile) degli anni 70 e 80. Cosa ne pensi di questo paragone?
Ovviamente il paragone mi fa piacere, sono un fan di Loredana Bertè, sentirla cantare una mia canzone sarebbe stupendo!
Rimanendo sulle influenze, se dovessi scegliere un artista e un album italiani (non devono essere per forza complementari) di chi faresti il nome?
Come artista sceglierei Lucio Dalla, perché ha scritto alcune tra le melodie più belle della storia. Come disco forse Io Tu Noi Tutti di Battisti, che è davvero un disco perfetto.
Hai scelto tu Luca Marinelli come protagonista del video di Niente di strano?
Luca ed io siamo amici fin dal liceo, poi ci siamo ritrovati entrambi a Berlino e ci siamo visti molto negli ultimi anni. Lui è stato il primo a sentire le mie canzoni in italiano, e così abbiamo pensato che avrebbe avuto senso fare un video insieme.
Secondo te in che modo la musica cantata in italiano può presentarsi su palcoscenici stranieri? Si può individuare un pubblico estero che possa appassionarsi, andando oltre all’ostacolo linguistico?
Secondo me il pubblico europeo, ma anche quello americano, sarebbe curioso di ascoltare le nostre cose. Credo che l’Italia dovrebbe iniziare a considerare come “prodotti esportabili” proprio le produzioni più stilisticamente nostrane, in italiano, e non cercare di immettere sul mercato estero cose che gli altri conoscono già e sanno già fare. Credo che la musica italiana abbia una cifra molto precisa, soprattutto nel gusto delle melodie, più che degli arrangiamenti. È sempre stato così, abbiamo un nostro modo di scrivere e di cantare, sta a noi farlo capire agli altri.
Qual è la tua massima ambizione legata al progetto Giorgio Poi?
Mi piacerebbe diventare cardinale.
Domande di Melania Bisegna, Livio Ghilardi e Simone Mazzilli.